L’articolo 29 della Costituzione così recita: il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi – eguaglianza che ha sradicato il regime patriarcale per cui, sino ai primi decenni del Novecento, l’uomo era titolare della cd. potestà maritale nei confronti della moglie e il matrimonio era dunque una sfera ove questi esercitava la supremazia.
Il marito era difatti il capo famiglia, la moglie ne seguiva la condizione civile e ne assumeva il cognome; aveva il diritto di fissare la residenza ed il domicilio coniugale, che la moglie aveva l’obbligo di seguire e da cui non poteva allontanarsi senza giusta causa. Esisteva la cd. autorizzazione maritale, e vi era, nel complesso, un pressoché assoluto assoggettamento della donna alla figura maschile – essendo per lei il matrimonio l’unica fonte di sostentamento.
A quell’epoca, difatti, la figura femminile non era culturalmente destinata al lavoro ma solo all’accudimento del marito e della prole.
Soltanto con il riconoscimento della capacità giuridica della donna, con il conseguente e graduale accesso al lavoro, e ancor più con l’avvento della Costituzione, gli istituti suindicati sono andati via via svanendo, sino ad arrivare all’assoluta parificazione dei coniugi che oggi conosciamo e che addirittura potrebbe apparire scontata.
I coniugi hanno oggi, ai sensi degli artt. 143, 144 e 147 dell’attuale codice civile, pari diritti ed obblighi; in particolare, questi ultimi sono costituiti da reciproca fedeltà ed assistenza, nonché coabitazione e collaborazione.
Sembra, almeno sulla carta, ormai estinta ogni forma di supremazia di un coniuge rispetto all’altro, tantomeno dell’uomo rispetto alla donna, ma una recente pronunzia degli ermellini, sembra farci tornare al codice del 1865.
Nell’estate del 2023, molti decenni dopo l’istituzione dell’eguaglianza dei coniugi, fieramente scolpita nella nostra Costituzione, un caso di addebito della separazione – istituto, di per sè, di rara applicazione – motivato sulla base di carenze in ambito domestico, desta stupore.
E’ quanto ha statuito il più alto organo giurisdizionale, la Suprema Corte di Cassazione, nel procedimento n. 13448/2023 R.G., instaurato dal marito che, avendo perso in entrambi i gradi di giudizio per la separazione dalla moglie (nei cui confronti aveva, per l’appunto, richiesto la pronunzia di addebito) era stato condannato a contribuire al mantenimento di quest’ultima e del figlio.
La donna, a seguito del mutamento del proprio credo religioso, era, a detta dell’ex coniuge, incorsa in svariate mancanze che avevano logorato il rapporto, rendendo improseguibile la convivenza. Ella aveva assunto atteggiamenti denigratori nonché di indifferenza, si dedicava esclusivamente alla nuova congregazione religiosa e toglieva così tempo ed attenzioni al marito con cui era, di fatto, ormai separata in casa. Sin qui, ipotizzando una improvvisa ed unilaterale disaffezione della donna nei confronti del coniuge, nulla di strano. Leggendo attentamente il provvedimento, però, la Suprema Corte, nel riesaminare la decisione di secondo grado – con cui era stata rigettata la domanda di addebito ex art. 151 cod. civ. a carico della moglie – ha valorizzato, in particolare, la ripartizione dei compiti domestici all’interno della coppia.
A pagina 4 della sentenza si legge difatti che l’indifferenza della donna era tale da non occuparsi più delle faccende domestiche, che gli atteggiamenti di disaffezione erano costituiti dal fatto che si rifiutasse di cucinare, di occuparsi della casa e del bucato. Dette condotte sono state rimarcate dalla Cassazione, trascurando altri elementi come il comportamento anaffettivo e denigratorio, nonché il mutamento della fede religiosa da parte della donna.
Quest’ultimo punto ha suscitato parecchio scalpore nel mondo forense, incredulo dinanzi ad una decisione che sembra ribaltare, sotto questo profilo, precedenti giurisprudenziali in linea con l’art. 19 Cost. (cfr. Cass. Civ., 23 agosto 1985, n. 4498; nonché sentenze nn. 1401/1996 e 5241/2004).
Accogliendo il secondo motivo di ricorso del marito, la Suprema Corte ha difatti abbracciato la sua tesi per cui il cambiamento all’interno della coppia sia derivato dal mutamento di credo religioso – e così viene compressa la libertà ex art. 19 Cost. all’interno del matrimonio, creando un pericoloso precedente.
L’analisi che qui si svolge si concentra però su un dettaglio più sottile: i doveri coniugali sono disattesi non – o non solo – per l’atteggiamento di indifferenza ed anaffettività nei confronti del coniuge, ma per la trascuratezza nelle faccende domestiche. La Corte ha inequivocabilmente collegato i doveri coniugali della figura femminile a dette attività, addebitandole la separazione ex art. 151 cod. civ. e riportandoci, di fatto, drammaticamente indietro nel tempo.
Nessun dettaglio emerge dalla decisione, nessuna motivazione in merito alle effettive abitudini all’interno della coppia, alle ripartizioni dei compiti fra marito e moglie, nessuna giustificazione alle dure statuizioni sulle carenze della donna, tali da giustificare l’addebito della separazione in capo ad essa.
Conosciamo bene le realtà familiari in cui uno dei due coniugi si dedica al sostentamento economico della famiglia ed uno cura la casa e la prole, agevolando il primo. Molto spesso detta ripartizione è alla base dell’assegnazione di un assegno di mantenimento al coniuge che ha sempre svolto l’attività domestica al fine di favorire l’altro, di non costringerlo a ridurre l’orario di lavoro per occuparsi in modo esclusivo dei figli.
Ma nel caso che analizziamo, non vi è traccia di siffatta ipotesi, cioè di un pregresso accordo che assegna alla moglie il governo della casa.
In altre parole: una coppia che è solita ripartire i lavori domestici entra in crisi nel momento in cui il coniuge che, solitamente e per comune accordo, trascuri il proprio compito, rendendo la casa un disastro, con atteggiamento di ribellione o indifferenza, potrebbe giustificare l’origine di una crisi coniugale e di un addebito.
Ma una donna che si allontani gradualmente, anche (?) per motivazioni legate al proprio credo religioso, non merita di aver addebitata la separazione dal proprio coniuge per aver trascurato le faccende domestiche.
La sentenza in commento sembra affidarsi a un clichè – pregiudizio per cui le faccende domestiche sono per definizione “roba da donne”.
Al giorno d’oggi si leggono moltissime parole di matrice femminista, si estremizza molto il concetto per cui l’uomo e la donna siano eguali nei diritti e nei doveri, si cerca di normalizzare l’immagine di un uomo che si occupa della casa e dei figli – cercando di troncare con la cultura patriarcale che è stata insita nella realtà occidentale per secoli, si può dire da sempre. Ma lo scopo di questo commento non è questo.
Che un organo giurisdizionale come la Suprema Corte di Cassazione, consideri grave ed elevata la disaffezione, il distacco di un coniuge dall’altro per un motivo legato alla religione ed al trascuramento delle faccende domestiche, è purtroppo ormai lettera scritta.
La pronunzia degli ermellini è o dovrebbe essere parte di una sfera neutrale, quale è quella della Legge – Legge che mette al primo posto l’egualità fra i coniugi, la libertà di pensiero e la libertà religiosa.
Auguriamoci che, in un futuro, non leggeremo più sentenze così scarne nella motivazione da riportarci, a primo acchito, ad un passato povero di diritti.
Avv. Rosanna Ciavola