Le Legge n° 134/2022 (Riforma Cartabia) ha previsto, per sopperire alla soppressione della sesta sezione in Cassazione civile, un particolare procedimento funzionale alla decisione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati. Il nuovo art. 380 bis cod. proc. civ. prevede cioè che, laddove non sia ancora stata fissata la data della decisione, il presidente della sezione o un consigliere da questo delegato può formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio, quando ravvisa la inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto. La proposta è comunicata ai difensori delle parti. Entro quaranta giorni dalla comunicazione la parte ricorrente, con istanza sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale, può chiedere la decisione. In mancanza, il ricorso si intende rinunciato e la Corte provvede ai sensi dell’articolo 391.
Fin qui parrebbe un valido strumento volto a evitare inutili dispendi di tempo e di risorse, laddove il ricorso non abbia ragionevole probabilità di essere accolto; sembrerebbe, cioè, che la parte – avvisata dall’organo giudicante – sia messa nella condizione di evitare di sostenere maggiori spese nell’insistere in una domanda che verrà probabilmente rigettata, potendovi così rinunciare per tempo.
Ad un attento esame, purtroppo, siamo invece dinanzi ad una violazione del diritto di difesa: il terzo comma del nuovo art. 380 bis prevede, in aggiunta, che se entro il termine indicato al secondo comma la parte chiede – o meglio, si azzarda a chiedere comunque – la decisione, la Corte procede ai sensi dell’articolo 380 bis 1 e quando definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’articolo 96.
Nella sostanza, il legislatore mette spalle al muro il cittadino che, per non rischiare di incorrere nella sanzione ex art. 96, commi 3 e 4, cod. proc. civ., rinunzia al procedimento, prendendo atto dell’orientamento non dell’intera sezione, ma di un solo componente (il presidente o il relatore).
La norma cristallizza una sorta di punizione per voler proseguire il processo e scegliere di rischiare, chiedendo la decisione senza accontentarsi del parere negativo di un solo componente – confidando nella valutazione collegiale.
D’altronde in Cassazione non è prevista la decisione monocratica e niente esclude che il collegio decida favorevolmente sul ricorso che il presidente o il relatore abbiano ritenuto inammissibile o improcedibile o manifestamente infondato (!).
L’opinione di un singolo magistrato della Suprema Corte non è paragonabile a quella di un collegio e, mettendoci nei panni del cliente, chi di noi rischierebbe di sobbarcarsi maggiori esborsi – la sanzione prevista dall’art. 96 cod. proc. civ. oltre al pagamento di un nuovo contributo unificato e dei compensi alla controparte – dopo un primo parere negativo?
La norma sembra costituire una indebita pressione – espressione forse estrema ma idonea a denunziare la violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. che comporta la difficile scelta fra perseverare nel chiedere giustizia e soccombere per risparmiare.
Pensiamo al terzo comma del suddetto art. 24: sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti a ogni giurisdizione.
Questa norma cardine del nostro sistema giudiziario perde drammaticamente il senso dinanzi alla revoca del gratuito patrocinio che, come è noto, è una delle conseguenze in caso di abuso del processo: un povero sarà, nella realtà che i riformanti non hanno forse considerato, costretto a sborsare le somme previste dai commi 3 e 4 di tasca propria e, mettendoci nei suoi panni, chi di noi rischierebbe?
Ricordiamo che il povero, definito nel linguaggio paludato della legge come non abbiente, è ammesso al gratuito patrocinio (definito nello stesso linguaggio come patrocinio dei non abbienti) quando abbia redditi insufficienti, ma può essere proprietario della casa in cui vive ed avere comunque beni aggredibili.
La condanna alle spese in favore della controparte grava comunque su di lui, così come le sanzioni previste dall’art. 96 cod. proc. civ.; inoltre il beneficio del patrocinio a spese dello Stato sarebbe revocato, con ulteriori costi.
In definitiva una grave punizione proprio a carico di chi è non abbiente per definizione di legge.
L’art. 96 dovrebbe punire la parte che versi in uno stato di dolo, colpa grave, mala fede – la parte che cioè pecchi di imprudenza, di negligenza, o che perseveri nel far valere un diritto che è consapevole in realtà non sia esistente.
La riforma Cartabia invece, con questo articolo, crea prassi tecnico economiche inserendole nel rito processuale, puntando a velocizzare i processi a scapito della giustizia; paradossalmente sembra volere sanzionare chi pretenda la decisione collegiale, senza attenersi all’opinione di un solo giudice.
Su questa base, appare dunque profondamente ingiusto identificare l’abuso del processo nella volontà di far valere il proprio diritto, di cercare giustizia.
Fin qui abbiamo considerato l’ipotesi di errore del giudice monocratico che ritenga il ricorso inammissibile, improcedibile o manifestamente infondato.
In realtà, la sua relazione potrebbe anche essere perfetta, perché conforme e lineare rispetto a una giurisprudenza consolidata o addirittura granitica.
Il ricorso potrebbe quindi seguire la sorte dell’art. 380 bis cod. proc. civ. e così verrebbero meno tutte le ipotesi di overruling, poiché la giurisprudenza tenderebbe a reiterare quella precedente senza mai pervenire a quelle innovazioni che invece talvolta emergono a seguito della discussione collegiale e di un ponderato mutamento di indirizzo, dinanzi allo specifico caso concreto.
In molti casi, avvocati preparati e coraggiosi hanno convinto la Suprema Corte a mutare orientamenti consolidati, ricevendo anche il plauso della dottrina: si trattava di giuristi illuminati o di pretestuosi rallentatori del processo, meritevoli di sanzioni come quella prevista dalla norma qui commentata?
“Nemo videtur dolo exsequi, qui ignorat causam cur non debeat petere”: nessuno dimostra di comportarsi con dolo, se ignora il motivo per cui egli non debba agire in giudizio.
Avv. Rosanna Ciavola Avv. Antonino Ciavola
Pubblicato su Altalex