venerdì 13 ottobre 2023

Il “Legal Show”: la vita privata dell’avvocato ai tempi dei social network - di Avv.ti Rosanna e Antonino Ciavola

1.   


 Il Il caso di cronaca

A gennaio 2022, un’avvocatessa del Foro di Torino ha – oseremmo dire sfortunatamente – deciso di aprire un profilo nelle piattaforme social di Instagram e Facebook, denominato “dclegalshow”: lo spettacolo del mondo dell’avvocatura, dentro e fuori le aule di giustizia torinesi.

I social network sono sovente utilizzati dagli avvocati come canale di comunicazione della propria attività, come luogo di interconnessione in cui avviare dibattiti ed approfondire temi d’interesse comune.

A condivisioni di questo tipo pensava l’incolpata che, mostrandosi in eleganti abiti da lavoro, intervistava personaggi del settore e ne condivideva estratti video. Pubblicava anche contenuti relativi alla sua vita privata: sport in palestra ed in montagna, terme e centri benessere, aperitivi e cene in locali all’ultima moda.

Dopo aver ricevuto una serie di aspre critiche per gli abiti indossati e mostrati sul canale, ritenuti da alcuni dei colleghi succinti ed eccessivamente rivelatori delle forme, nonché accuse di strumentalizzazione del proprio corpo e del proprio fascino per farsi pubblicità, l’incolpata – destinataria di una pluralità di esposti disciplinari e richiamata dall’Ordine di appartenenza nell’esercizio della vigilanza di cui all’art. 29, lettera f, della Legge professionale – ha reagito modificando il tenore delle proprie condivisioni: ironizzando sulle accuse rivoltele, si è mostrata intenta a lavorare al pc, seminuda, con accanto una bottiglia di champagne ed un codice penale; china sotto la scrivania di un collega, raccogliendo una penna; o ancora distesa su un divano a forma di labbra, coperta dalla sola toga.

Ella ha accompagnato tali condivisioni con espressioni provocatorie rivolte proprio a quei colleghi, in qualche modo ritenuti moralisti, che l’avevano segnalata al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati quando ancora, in origine, ella si limitava a condividere contenuti di natura giuridica, insieme a immagini relative al cd. post office torinese – di cui ogni lavoratore dovrebbe avere la libertà di godere.

La situazione è poi precipitata dopo una serie di interviste televisive rilasciate dall’incolpata, ormai sotto i riflettori tanto da venir chiamata come concorrente del reality show Pechino Express, al quale ha partecipato.

Tutto ciò ha provocato un vero e proprio tsunami nell’ambiente forense torinese, il cui Consiglio Disciplinare ha recentemente condannato l’avvocatessa a mesi quindici di sospensione dall’esercizio della professione forense: il profilo dclegalshow  le è costato caro, è stata ritenuta colpevole di aver posto in essere condotte lontane dai principi di serietà e sobrietà ai quali dovrebbe ispirarsi l’esercizio della professione, di aver utilizzato tecniche non lecite per farsi conoscere e per ricavare notorietà […] compromettendo in modo rilevantissimo l’immagine della professione forense, tenendo un comportamento complessivo particolarmente sprezzante, gravissimamente irrispettoso delle istituzioni forensi (così si è pronunziato il CDD di Torino e ampi passaggi della motivazione sono stati riportati testualmente dalla stampa).

L’avvocato ha certamente reagito in modo estremo alle critiche subìte, peggiorando la propria posizione, ma siamo certi che la condanna sia conforme a quanto dispone la legge professionale?

Dove termina la violazione dei doveri deontologici dell’avvocato ed inizia la caccia alle streghe? Siamo dinanzi ad organi forensi, come ritenuto dall’incolpata, “moralisti” oppure davvero l’avvocatessa poteva far meglio o, diremmo più correttamente, doveva far meno? Analizziamo la normativa.

2.    La normativa ritenuta violata

D Dovere di dignità, probità e decoro – Artt. 2 e 9, comma 2 Codice Deontologico Forense

La condotta dell’incolpata sembra violare i doveri di decoro, probità e dignità previsti dall’art. 9 del Codice Deontologico Forense, ed in particolare dal secondo comma che così recita: “L’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense”.

Parimenti violato appare l’articolo 2 del medesimo Codice Deontologico Forense, che estende l’applicazione delle norme deontologiche anche ai comportamenti nella vita privata, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine della professione forense.

L’argomento dà impulso ad un amplissimo approfondimento, essendo innumerevoli le condotte che un avvocato – che prima di essere un professionista del mondo legale è un essere umano – potrebbe porre in essere, danneggiando, anche senza volerlo, la propria reputazione, la propria serietà agli occhi del pubblico, la propria credibilità e, insieme, quella dell’intera classe forense di appartenenza.

La giurisprudenza del C.N.F. è sempre stata chiara sul punto: le condotte poste in essere nella vita privata o meglio, secondo la nuova formulazione su trascritta, al di fuori dello svolgimento dell’attività professionale, assumono rilevanza laddove la figura del soggetto che le ponga in essere sia ricondotta o facilmente riconducibile alla classe forense. In altre parole, essenziale è la notorietà: lo stesso fatto, riprovevole secondo la comune coscienza, diventa occasione per irrogare la sanzione disciplinare solo quando assuma una rilevanza esterna, mentre se resta segreto appartiene alla vita privata non valutabile dagli organi disciplinari (cfr. https://www.altalex.com/documents/news/2008/04/25/lina-il-grande-fratello-e-la-deontologia-della-vita-privata).

L’avvocato non deve essere perfetto, ma deve evitare comportamenti indecorosi, sia nell’esercizio della professione che in altre attività che nella vita privata, tali da gettare discredito sull’avvocatura (CDD di Genova, decisione n° 11 del 17 dicembre 2019 – nello stesso senso Cass. Civ., SS.UU., 6 luglio 2021, sentenza n° 20383 e Cass. Civ., SS.UU., 11 luglio 2017, ordinanza n° 17115).

Pertanto dev’essere chiaro che un individuo non dovrebbe, sol perché avvocato, privarsi di condurre una florida vita sociale, di esporre il proprio corpo coperto da un costume mentre si trova al mare o in sauna, oppure da abbigliamento alla moda, succinto o meno che sia, né di praticare sport e mostrarne – peccando anche di “narcisismo ed esibizionismo” – fieramente i risultati: siffatte limitazioni lederebbero la libertà di espressione che, come correttamente evidenziato dall’incolpata, nel nostro ordinamento è sancita a livello costituzionale dall’art. 21.

Il limite che la normativa pone all’avvocato è molto più sottile: ciò che non può fare è strumentalizzare il proprio corpo ed associare la vita forense a cd. generose esposizioni delle forme, all’uso di alcol, alla sovraesposizione bulimica dell’immagine e dell’aspetto fisico, nonché alla strumentalizzazione della toga, simbolo supremo dell’avvocatura, utilizzata dall’incolpata per degli scatti definiti dal CDD torinese appropriati per un format di taglio erotico. In altre parole, il limite è – anche – il buon costume ma esclusivamente in presenza di una qualche riconducibilità dell’individuo alla professione forense.

La condotta dell’incolpata ha avuto così tanta risonanza, è stata così duramente perseguita, perché realizzata spendendo il titolo di avvocato, all’interno di profili social accessibili a tutti ed inequivocabilmente riferiti alla propria professione, che ambiva ad essere mostrata come degna di un telefilm americano, come spassosa, priva di noia, letteralmente come parte di uno show: “lo show legale è reale” recita infatti la sigla dei profili social dell’incolpata. La messa in primo piano della toga, sul corpo seminudo dell’avvocatessa, ha probabilmente rappresentato l’elemento chiave dell’intera incolpazione: durissime le parole del CDD torinese che, pronunziandosi sul punto, ha ritenuto la toga ai fianchi e con la schiena nuda all’apice della gravità deontologica, rappresentando questa il simbolo dell’avvocatura, un indumento da portare con orgoglio e non da indossare per suscitare pulsioni ed emozioni erotiche.

Dovere di corretta informazione – Artt. 17 e 35 Codice Deontologico Forense

La strumentalizzazione del corpo ha comportato, inoltre, la violazione di un ulteriore principio generale imposto dal Codice Deontologico Forense, e cioè dell’articolo 17, secondo cui le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, devono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative. In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.

Orbene, all’incolpata è addebitata, sotto questo profilo, l’eccessiva messa in mostra del proprio stile di vita che – ispirato a quello degli avvocati delle serie televisive americane – parrebbe, a parere del CDD torinese, voler suggestionare il pubblico con un mix di video e scatti, alcuni vagamente hot, che intrecciavano la vita legale e quella glamour, tra toghe, abiti firmati e borse Chanel.

Posto che – in linea con quanto abbiamo considerato al punto precedente – nulla di male vi è nell’indossare capi firmati (che essi siano acquistati coi proventi del duro lavoro o regalati o ereditati), la condotta è stata considerata rilevante dal punto di vista disciplinare per il suo inevitabile intreccio con l’art. 35 del Codice Deontologico che, richiamando i medesimi principi di cui all’art. 17, vieta all’avvocato di fornire al pubblico informazioni sulla propria attività professionale ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti all’attività professionale.

Il CDD piemontese ha condannato la pubblicità posta in essere dall’incolpata poiché tramite lo sfoggio della propria vita mondana ella avrebbe in qualche modo “incantato” il pubblico, procacciandosi clientela mediante condivisione di informazioni non relative alla propria carriera, ma solo al proprio aspetto, e, in particolare, ingannando la collettività in merito alle proprie reali sostanze e alle reali attività lavorative poste in essere: un’avvocatessa così giovane, a parere dell’Organo torinese, non potrebbe permettersi una vita del tenore mostrato dall’incolpata che, così, si sarebbe macchiata anche della violazione dei suddetti artt. 17 e 35 del Codice Deontologico. Anche qui sorge spontaneo notare una forma di pregiudizio: fin dove è lecito spingersi nel giudicare la promozione di se? Non sono state diffuse informazioni non veritiere in merito al curriculum (come, ad esempio, incarichi lavorativi inesistenti, esperienze in un determinato settore mai avute) bensì esaltazioni del proprio stile di vita, che a nulla dovrebbe rilevare nella valutazione delle competenze professionali di un avvocato. L’utilizzo del condizionale (dovrebbe rilevare) è ahinoi voluto: il decadimento dei valori che negli ultimi anni macchia la nostra società porta certamente a condividere i dubbi del CDD torinese, poiché non è possibile escludere che una buona fetta della popolazione italiana sia suggestionata ed attirata dalla cd. bella vita.

Trovandoci in uno scalino più alto – e parlando non di costume bensì di legge – è lecito chiedersi se sia proporzionato condannare ad oltre un anno di sospensione un avvocato per una pluralità di condotte non tipizzate e lesive di principi generali che una sanzione non la prevedono e, ancora, se sia lecito ampliare le sanzioni che talune norme violate prevedono, sino a renderle pari o addirittura peggiori di quelle che sovente si addebitano ad avvocati macchiatisi di delitti.

 A titolo meramente esemplificativo: Cass. Civ., SS.UU., sentenza n° 12798/17 (sospensione di un anno all’avvocato che ha suggerito al cliente di commettere azioni illecite); CDD Napoli, sentenza n° 28/2023 (censura all’avvocato per inadempimento al mandato e omissione di informazioni al cliente), CNF, sentenza n° 19 del 28 febbraio 2023 (sospensione di un anno e sei mesi all’avvocato condannato per truffa); CNF, sentenza n° 62 del 13 maggio 2022 (sospensione di un anno all’avvocato che pubblicizza il proprio studio con la propaganda “paghi solo in caso di vittoria”); CNF, sentenza n° 127 del 17 luglio 2022 (sospensione di due mesi all’avvocato che chieda un compenso pari a quattro volte quello previsto dai parametri forensi); CNF, sentenza n° 105 del 18 luglio 2011 (sospensione di sei mesi all’avvocato macchiatosi di indebito trattenimento di somme di denaro).

3.    La tipizzazione sempre più attenuata

L’articolo 3 della Legge professionale forense n° 247/2012 prevede che “il codice deontologico stabilisce le norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare […] ed individua espressamente fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile”.

Il legislatore ha sancito, in rotta con la libertà avuta dagli organi disciplinari sino alla riforma, un sistema basato sulla tipizzazione: nessun comportamento può essere sanzionato se non laddove espressamente individuato all’interno del Codice Deontologico e laddove connesso ad una specifica sanzione.

La giurisprudenza sembra però aver interpretato le parole per quanto possibile, contenute nell’articolo summenzionato, come un lasciapassare per sanzionare tutti quei comportamenti non specificatamente previsti dal codice deontologico ma, comunque, considerati lesivi dei principi ivi contenuti.

Su questo profilo rinviamo a https://www.altalex.com/documents/news/2018/04/23/codice-deontologico-forense-la-tipizzazione-fa-un-passo-indietro.

Come meglio illustrato nell’articolo appena citato, si è prima consolidato un indirizzo giurisprudenziale e poi, in conseguenza, è stato modificato il Codice Deontologico, prevedendo che qualunque violazione delle generali regole di condotta costituisce un illecito disciplinare.

Sembra così che la tipizzazione sia stata di fatto eliminata, ma in effetti l’apparente antinomia può trovare una risposta andando a scavare nelle radici della deontologia forense.

Prima della formale adozione di un codice deontologico ne esistevano alcuni adottati a livello territoriale dai singoli Consigli dell’Ordine; uno dei più antichi è quello approvato il 20 novembre 1964 dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Padova, ed è un documento rilevante che, per comodità di consultazione, riportiamo in appendice.

L’art. 6 di questo antico codice deontologico afferma che il difensore deve indossare la toga con le distinzioni che gli competono, dignitosamente, consapevole del valore che essa rappresenta.

Il rispetto della toga è quindi un dovere insito nella coscienza degli avvocati: si potrebbe pensare che la sua violazione non sia punibile solo perché nel codice deontologico attuale non c’è scritto?

La risposta affermativa potrebbe essere formalmente corretta, nel rispetto dell’obbligo di tipizzazione degli illeciti, ma sarebbe sostanzialmente aberrante essendo chiaro che il dileggio o lo svilimento della toga rientrerebbe a pieno titolo tra quei comportamenti indicati dall’art. 3 della Legge Professionale Forense che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare.

Ci riferiamo al pubblico interesse perché la toga non è soltanto un simbolo forense ma, più ampiamente, è un simbolo di giustizia, essendo indossata anche dai magistrati, cancellieri e ufficiali giudiziari (per queste ultime due figure, chi ha avuto la possibilità di partecipare a udienze in Corte Costituzionale, Corte dei Conti e Consiglio di Stato ne avrà preso atto).

Un secondo esempio: l’art. 10 del codice deontologico patavino afferma che i giovani devono rispetto ai Colleghi più anziani. Questo potrebbe sembrare un reperto ormai superato, degradato a livello di comportamenti di buona o cattiva educazione, eppure ancora oggi costituisce una delle lamentele più frequenti che si riscontrano in concreto nell’ambiente forense, dove il fatto di essere tutti colleghi sembra aver svilito quella tradizionale forma di rispetto che, come abbiamo appena dimostrato, è insita nella collettività forense.

Valgono le stesse considerazioni svolte per il rispetto della toga: nessuna norma prevede oggi espressamente il rispetto (che non va confuso con la sottomissione) nei confronti dei colleghi più anziani, ma certamente una grave violazione sconfinante nel dileggio potrebbe ben essere sanzionata in base ai principi generali, malgrado non tipizzata.

La soluzione rispetto all’apparente antinomia che dicevamo può quindi rinvenirsi nella considerazione che i principi generali del Codice Deontologico appartengono alla collettività degli avvocati anche se non esplicitati, e in tal senso la modifica apportata ritrova una sua logica.

4.    La sproporzione della sanzione disciplinare applicata

La condotta provocatoria ed esibizionista dell’avvocato torinese sembra violare plurimi principi generali del Codice Deontologico, che però, rappresentano, per quanto tali, norme prive della specifica tipizzazione delle condotte imposta dall’art. 3 della Legge Professionale per l’irrogazione e l’applicazione di una sanzione.

La violazione di siffatti principi deve essere, fuori da ogni dubbio e per le considerazioni illustrate, elemento di valutazione della complessiva condotta dell’incolpata ma non basta a giustificare una sanzione grave come quella applicata alla torinese.

La disposizione della norma primaria – che prevale, ovviamente, su quella secondaria del codice deontologico – significa che vi possono pur essere dei comportamenti eticamente riprovevoli e come tali non consentiti dal codice deontologico; ma che non tutti tali comportamenti sono sanzionabili dal punto di vista disciplinare, o almeno devono essere ricondotti per analogia a quelli che prevedono una pena edittale.

Queste sono le ragioni che portarono all’obbligo di tipizzazione, la cui attenuazione rappresenta il ritorno a un sistema basato più su considerazioni morali che, in quanto tali, sono necessariamente soggettive.

Occorre quindi indagare sulle singole violazioni ravvisabili nei comportamenti dell’incolpata, valutarne le pene edittali previste e verificare se la complessiva sanzione inflitta sia in linea con esse.

Orbene, la violazione dei principi generali summenzionati non prevede sanzione.

La violazione dell’art. 35, invece, prevede la censura, che in casi gravi può essere aggravata fino a due mesi di sospensione. Ancora, considerando nel caso analizzato la rilevanza data dall’organo di disciplina al cd. strepitus fori generato dall’avvocatessa torinese – nei suoi rapporti con organi di informazione – si potrebbe considerare violato anche l’art. 57 del Codice Deontologico che, però, proprio nel rispetto della norma primaria dettata dall’art. 3 della Legge 247/12, sanziona le violazioni relative al segreto d’indagine, alla spendita del nome dei propri clienti, all’enfasi delle proprie capacità professionali e alla violazione dei doveri nei confronti dei minori. Queste gravi violazioni, intuitivamente rilevanti perché lesive di un pubblico interesse, sono le uniche che prevedono la pena edittale della sospensione (peraltro da due a sei mesi), ma per fattispecie che appaiono oggettivamente più gravi rispetto a quelle dell’incolpata.

Pertanto, anche ipotizzando una pluralità di violazioni, che vanno da quelle dei principi generali a quelle più specifiche dei rapporti con la stampa e dei limiti all’attività di informazione, riteniamo che la sanzione massima applicabile non potesse spingersi oltre pochi mesi di sospensione.

La sanzione inflitta – che peraltro è sub judice, potendo essere impugnata innanzi al Consiglio Nazionale Forense – non sembra conforme alle pene edittali previste dal Codice Deontologico, ma appare esagerata e punitiva nei confronti di una avvocatessa che avrà probabilmente esagerato con il proprio comportamento e con le reazioni alle critiche e agli inviti alla moderazione, ma non fino al punto di compromettere una intera attività professionale. La motivazione della sanzione, infatti, non può limitarsi a soggettive valutazioni di natura morale: le regole deontologiche sono sì norme di diritto su base etica, ma è necessaria la proporzionalità rispetto alle pene edittali fissate dal Codice Deontologico.

 

Avv. Rosanna Ciavola                                                                                                    Avv. Antonino Ciavola

 

Pubblicato su Altalex 7.2023