venerdì 13 ottobre 2023

Procura alle liti ed informativa sulla mediazione: l’una non ingloba l’altra? Cassazine 7.12.2022 n° 35971: un pericoloso precedente giurisprudenziale - di Avv.ti Antonino e Rosanna Ciavola

La recentissima pronunzia della Cassazione (ord. 7 dicembre 2022, n° 35971) in merito al diritto del procuratore alla percezione del compenso, pur non avendo adempiuto a quanto previsto dall’art.4 della Legge n° 28/2010, sembrerebbe sancire una nuova e pericolosa interpretazione in merito alla validità della procura alle liti che, sinora gli avvocati di tutt’Italia hanno sottoposto e fatto sottoscrivere ai propri clienti.

I giudici di legittimità non ritengono difatti adempiuto l’obbligo di cui al citato art. 4, laddove l’informativa sull’esperimento facoltativo del procedimento di mediazione sia contenuta nella procura “ad litem”, dalla quale – l’informativa stessa – si distingue per oggetto e funzione. Così richiamando la sentenza del 7 luglio 2016, n° 13886, la Cassazione parrebbe distinguere in due differenti – a quanto pare necessari – documenti l’informativa dal mandato alle liti, non sembrando suscettibili di essere contenuti in un unico documento e cioè nella procura ad litem comunemente redatta dall’avvocato.

La realtà è però molto diversa: la sentenza del 2016 richiamata aveva significato opposto. La vicenda riguardava il caso di un avvocato che, dopo aver raccolto una sottoscrizione (illeggibile) del rappresentante legale di una società, omettendo di indicarne il nominativo, pretendeva di poter sussumere l’identità del proprio assistito da un altro documento e cioè dall’informativa sulla mediazione contenuta in documento diverso dalla procura, sottoscritta in modo leggibile dal cliente, debitamente identificato.

Il giudice, in detto caso, aveva sì affermato che l’informativa e la procura alle liti sono due documenti differenti sia per oggetto che per funzione, restando la prima estranea allo ius postulandi, con l’unico intento, però, di porre l’accento sull’invalidità del mandato in possesso dell’avvocato – poiché monco e non integrabile tramite un altro atto con finalità diverse.

Nella vicenda recentemente esaminata dalla Suprema Corte di Cassazione alla fine del 2022, invece, si nega la validità di una informativa sulla mediazione sottoscrivendo, unitamente al conferimento del mandato difensivo, la procura ad litem.

Le fattispecie sono diametralmente opposte e, richiamando la pronunzia del 2016, gli ermellini spianano la strada ad un nuovo pericoloso precedente per cui ogni mandato alle liti, in un certo senso “onnicomprensivo” di quanto dettato dalla Legge 28/2010 non sia, in realtà, valido come pensiamo.

Per evitare di incontrare ostacoli, suggeriamo la stesura del documento nella maniera che segue – consistente in un documento “complesso”, contenente tanto l’informativa prevista dalla L. 28/2010 quanto il conferimento del mandato alle liti.

 

FAC SIMILE

PROCURA ALLE LITI E INFORMATIVA SULLA MEDIAZIONE

Io sottoscritto _____, natc a ____, il __.__.____, cod. fisc. ________________, residente in _______, Via _______ n° __, delego l’Avv. _______________, cod. fisc. ________________, pec ______________________________, a rappresentarmi e difendermi  in ogni fase e grado del presente procedimento innanzi al __________, anche nella fase dell’esecuzione, conferendogli ogni più ampia facoltà di legge, ivi comprese le facoltà di transigere, conciliare, incassare, quietanzare, rinunciare agli atti ed accettarne la rinuncia, farsi sostituire, eleggere domicili, rinunziare alla comparizione delle parti, riassumere la causa, proseguirla, chiamare terzi in causa, deferire giuramento, proporre domande riconvenzionali ed azioni cautelari di qualsiasi genere e natura in corso di causa, chiedere ed accettare rendiconti, ed assumendo sin d’ora per rato e valido l’operato del suddetto legale.

Eleggo domicilio presso lo studio dell’Avv. __________, sito in _____, Via ________ n° __.

Dichiaro di essere informato, ai sensi dell’art. 4, co. 3, D. Lgs. n. 28/2010, della possibilità di ricorrere al procedimento di mediazione ivi previsto e dei benefici fiscali di cui agli artt. 17 e 20 del medesimo decreto, nonché dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Dichiaro di essere informato, ai sensi dell’art. 2, co. 7, D. L. n. 132/2014, della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati disciplinata dagli artt. 2 e ss. del suddetto decreto legge.

Dichiaro, ai sensi e per gli effetti di cui al D. Lgs. n. 196/2003 e successive modificazioni ed integrazioni, di essere informato che i miei dati personali, anche sensibili, verranno utilizzati per le finalità inerenti al presente mandato, autorizzando sin d’ora il rispettivo trattamento.

La presente procura alle liti è da intendersi apposta in calce all’atto.

______, __.__.____.

 

___________________

Visto per autentica

 

Avv. ________________


Pubblicato su Altalex
 

Il giudice monocratico debutta in cassazione Il nuovo art. 380 bis cod. proc. civ. e la condanna ex art. 96, commi 3 e 4 - Avv.ti Rosanna e Antonino Ciavola

Le Legge n° 134/2022 (Riforma Cartabia) ha previsto, per sopperire alla soppressione della sesta sezione in Cassazione civile, un particolare procedimento funzionale alla decisione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati. Il nuovo art. 380 bis cod. proc. civ. prevede cioè che, laddove non sia ancora stata fissata la data della decisione, il presidente della sezione o un consigliere da questo delegato può formulare una sintetica proposta di definizione del giudizio, quando ravvisa la inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto. La proposta è comunicata ai difensori delle parti. Entro quaranta giorni dalla comunicazione la parte ricorrente, con istanza sottoscritta dal difensore munito di una nuova procura speciale, può chiedere la decisione. In mancanza, il ricorso si intende rinunciato e la Corte provvede ai sensi dell’articolo 391.

Fin qui parrebbe un valido strumento volto a evitare inutili dispendi di tempo e di risorse, laddove il ricorso non abbia ragionevole probabilità di essere accolto; sembrerebbe, cioè, che la parte – avvisata dall’organo giudicante – sia messa nella condizione di evitare di sostenere maggiori spese nell’insistere in una domanda che verrà probabilmente rigettata, potendovi così rinunciare per tempo.

Ad un attento esame, purtroppo, siamo invece dinanzi ad una violazione del diritto di difesa: il terzo comma del nuovo art. 380 bis prevede, in aggiunta, che se entro il termine indicato al secondo comma la parte chiede – o meglio, si azzarda a chiedere comunque – la decisione, la Corte procede ai sensi dell’articolo 380 bis 1 e quando definisce il giudizio in conformità alla proposta applica il terzo e il quarto comma dell’articolo 96.

Nella sostanza, il legislatore mette spalle al muro il cittadino che, per non rischiare di incorrere nella sanzione ex art. 96, commi 3 e 4, cod. proc. civ., rinunzia al procedimento, prendendo atto dell’orientamento non dell’intera sezione, ma di un solo componente (il presidente o il relatore).

La norma cristallizza una sorta di punizione per voler proseguire il processo e scegliere di rischiare, chiedendo la decisione senza accontentarsi del parere negativo di un solo componente – confidando nella valutazione collegiale.

D’altronde in Cassazione non è prevista la decisione monocratica e niente esclude che il collegio decida favorevolmente sul ricorso che il presidente o il relatore abbiano ritenuto inammissibile o improcedibile o manifestamente infondato (!).

L’opinione di un singolo magistrato della Suprema Corte non è paragonabile a quella di un collegio e, mettendoci nei panni del cliente, chi di noi rischierebbe di sobbarcarsi maggiori esborsi – la sanzione prevista dall’art. 96 cod. proc. civ. oltre al pagamento di un nuovo contributo unificato e dei compensi alla controparte – dopo un primo parere negativo?

La norma sembra costituire una indebita pressione – espressione forse estrema ma idonea a denunziare la violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. che comporta la difficile scelta fra perseverare nel chiedere giustizia e soccombere per risparmiare.

Pensiamo al terzo comma del suddetto art. 24: sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti a ogni giurisdizione.

Questa norma cardine del nostro sistema giudiziario perde drammaticamente il senso dinanzi alla revoca del gratuito patrocinio che, come è noto, è una delle conseguenze in caso di abuso del processo: un povero sarà, nella realtà che i riformanti non hanno forse considerato, costretto a sborsare le somme previste dai commi 3 e 4 di tasca propria e, mettendoci nei suoi panni, chi di noi rischierebbe?

Ricordiamo che il povero, definito nel linguaggio paludato della legge come non abbiente, è ammesso al gratuito patrocinio (definito nello stesso linguaggio come patrocinio dei non abbienti) quando abbia redditi insufficienti, ma può essere proprietario della casa in cui vive ed avere comunque beni aggredibili.

La condanna alle spese in favore della controparte grava comunque su di lui, così come le sanzioni previste dall’art. 96 cod. proc. civ.; inoltre il beneficio del patrocinio a spese dello Stato sarebbe revocato, con ulteriori costi.

In definitiva una grave punizione proprio a carico di chi è non abbiente per definizione di legge.

L’art. 96 dovrebbe punire la parte che versi in uno stato di dolo, colpa grave, mala fede – la parte che cioè pecchi di imprudenza, di negligenza, o che perseveri nel far valere un diritto che è consapevole in realtà non sia esistente.

La riforma Cartabia invece, con questo articolo, crea prassi tecnico economiche inserendole  nel rito processuale, puntando a velocizzare i processi a scapito della giustizia; paradossalmente sembra volere sanzionare chi pretenda la decisione collegiale, senza attenersi all’opinione di un solo giudice.

Su questa base, appare dunque profondamente ingiusto identificare l’abuso del processo nella volontà di far valere il proprio diritto, di cercare giustizia.

Fin qui abbiamo considerato l’ipotesi di errore del giudice monocratico che ritenga il ricorso inammissibile, improcedibile o manifestamente infondato.

In realtà, la sua relazione potrebbe anche essere perfetta, perché conforme e lineare rispetto a una giurisprudenza consolidata o addirittura granitica.

Il ricorso potrebbe quindi seguire la sorte dell’art. 380 bis cod. proc. civ. e così verrebbero meno tutte le ipotesi di overruling, poiché la giurisprudenza tenderebbe a reiterare quella precedente senza mai pervenire a quelle innovazioni che invece talvolta emergono a seguito della discussione collegiale e di un ponderato mutamento di indirizzo, dinanzi allo specifico caso concreto.

In molti casi, avvocati preparati e coraggiosi hanno convinto la Suprema Corte a mutare orientamenti consolidati, ricevendo anche il plauso della dottrina: si trattava di giuristi illuminati o di pretestuosi rallentatori del processo, meritevoli di sanzioni come quella prevista dalla norma qui commentata?

Nemo videtur dolo exsequi, qui ignorat causam cur non debeat petere”: nessuno dimostra di comportarsi con dolo, se ignora il motivo per cui egli non debba agire in giudizio.

Avv. Rosanna Ciavola                                       Avv. Antonino Ciavola

 

Pubblicato su Altalex 

Dura lex sed lex – l’imposto ritorno al passato dell’UE “Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sugli imballaggi e i rifiuti da imballaggio, che modifica il Regolamento (UE) 2019/1020 e la Direttiva (UE) 2019/904 e che abroga la Direttiva 94/62/CE” – di Avv. Rosanna Ciavola


L’imballaggio è un protagonista occulto della storia, ha scandito i ritmi della civiltà: comparso in era pre-sumerica in Mesopotamia sotto forma di anfora, si è evoluto insieme all’uomo e, con l’avvento della tecnologia, ha assolto la sua funzione trasformandosi in latta, flacone, bottiglia, scatola, pellicola.

L’imballaggio (dal francese emballage, derivazione di emballer cioè imballare, confezionare) ha la multipla funzione di contenere e proteggere determinate merci, dalle materie prime ai prodotti finiti, a consentire la loro manipolazione e la loro consegna dal produttore al consumatore o all’utilizzatore, e ad assicurare la loro presentazione.

Questa definizione è contenuta nel primo intervento del legislatore europeo sul punto, e cioè la Direttiva 94/62/CE, volta ad ottimizzare la prestazione degli imballaggi e renderli sicuri per le merci ivi contenute - il tutto nell’ambito di una politica di economia sostenibile e riduzione della quantità globale degli imballaggi al fine di prevenire la creazione di rifiuti da essi derivanti.

La Direttiva prevedeva, in particolare, specifici e stringenti limiti ai livelli di concentrazione di metalli pesanti e di additivi chimici negli imballaggi, al fine di tutelare la sicurezza, la protezione della salute e l’igiene dei prodotti. Altra importante finalità del legislatore europeo era quella di garantire sistemi di restituzione, raccolta, riciclaggio, reimpiego o recupero degli imballaggi.

Maggiori specifiche sono state inserite, più recentemente, nella Direttiva S.U.P. (Single Use Plastic) n° 904/2019 che ha bandito i prodotti monouso in plastica dal mercato europeo – in particolare tazze o bicchieri per bevande, inclusi i relativi tappi e coperchi; contenitori per alimenti, [...] destinati al consumo immediato, sul posto o da asporto; generalmente consumati direttamente dal recipiente; e pronti per il consumo senza ulteriore preparazione – consentendone l’immissione nel mercato solo laddove composti da materiali biodegradabili/compostabili.

Ciò è però possibile soltanto in via residuale: ove non sia possibile l’uso di alternative riutilizzabili ai prodotti di plastica monouso destinati ad entrare in contatto con alimenti; qualora l’impiego sia previsto in circuiti controllati che conferiscono in modo ordinario e stabile, con raccolta differenziata, i rifiuti al servizio pubblico di raccolta quali, mense, strutture e residenze sanitarie o socio-assistenziali; laddove tali alternative, in considerazione delle specifiche circostanze di tempo e di luogo non forniscano adeguate garanzie in termini di igiene e sicurezza; in considerazione della particolare tipologia di alimenti o bevande; in circostanze che vedano la presenza di elevato numero di persone; qualora l’impatto ambientale del prodotto riutilizzabile sia peggiore delle alternative biodegradabili e compostabili monouso, sulla base di un’analisi del ciclo di vita da parte del produttore.

 

Questi obiettivi sono, ahinoi, stati disattesi con l’avvento della pandemia da Sars Covid-19, che ha ribaltato la situazione rendendo praticamente essenziale per ragioni igienico-sanitarie l’utilizzo di prodotti monouso – considerati basilari per evitare rischi di contaminazione.

Tre anni dopo, l’Unione Europea ha deciso di ribadire e rilanciare il suo primo forte messaggio mandato agli Stati Membri con la Direttiva S.U.P.

Il legislatore è però passato al livello successivo e, riprendendo sostanzialmente le medesime considerazioni già vanamente fatte in passato, stavolta ha astutamente scelto lo strumento del Regolamento: immediatamente in vigore, senza bisogno di attendere il recepimento da parte degli Stati Membri.

Cruciali, a mio parere, sono le innovazioni in ambito alimentare e quelle relative al riutilizzo degli imballaggi. Ma andiamo con ordine.

Gli imballaggi nel settore alimentare - Art. 5 della Proposta del 30.11.2022

Nella normativa degli anni Novanta, si prevedeva che gli alimenti fossero imballati in materiali che non devono modificare le proprietà organolettiche e rendere nocive le sostanze in esso contenute e non devono presentare rischi per la salute dei consumatori.

Oggi, l’art. 5 della Proposta di Regolamento prevede, proprio a tal fine ed alla luce dell’avanzamento della tecnologia – che certamente consente la creazione di contenitori meno trattati possibile – una concentrazione di piombo, cadmio, mercurio e cromo esavalente negli imballaggi non superiore a 100 mg/kg, nettamente inferiore rispetto a un trentennio fa.

Innumerevoli le critiche mosse dagli Stati Membri, primariamente dall’Italia, e nello specifico da parte di Confindustria e dei maggiori produttori di imballaggi, per ragioni prettamente economiche nonchè igienico sanitarie. Non sono mancati i commenti relativi alla ritenuta pericolosità degli imballaggi da restituire e sanificare e nuovamente immettere nel mercato, soprattutto quando essi siano destinati alla conservazione e al trasporto di generi alimentari.

Difatti, il legislatore sta attualmente ipotizzando l’eliminazione in tronco delle reti, delle vaschette, dei vassoi e dei contenitori di frutta e verdura al di sotto di 1,5 kg, a meno che non sia dimostrata la necessità di evitare perdite di acqua o turgore, rischi microbiologici o urti “costringendo” così i consumatori a sopportare le lungaggini dovute alla pesatura e all’auto-confezionamento dei cibi, e provocando, dall’altra parte, una grossa perdita economica in capo ai produttori dei beni stessi e ai produttori degli imballaggi. Dappertutto si leggono infatti proteste per l’annunciata sparizione delle vaschette di frutta e dell’insalata in busta, contenitori che, alla fine, costituiscono solo un ingombro e non sono – ammettiamolo – riciclati come l’Unione impone, senza grande successo, da moltissimi anni. L’eliminazione in tronco della sola possibilità di generare un rifiuto, con tutta la sua prepotenza, incombe e l’uomo, per sua stessa natura, è destinato ad abituarvisi. Chi di noi avrebbe immaginato di utilizzare delle buste sottilissime e a rischio rottura, un po’ di anni fa?

“Consuetudinis magna vis est”: la forza dell'abitudine è grande

La riutilizzabilità dell’imballaggio e la residuale produzione di rifiuti – Art. 10 della Proposta del 30.11.2022

L’articolo 10 definisce “riutilizzabile” l’imballaggio concepito, progettato e immesso nel mercato con l’obiettivo di essere riutilizzato o nuovamente riempito; concepito e progettato per effettuare il maggior numero possibile di spostamenti o rotazioni in condizioni d’uso normalmente prevedibili; che può essere svuotato o scaricato senza subire danni che ne impedirebbero il riutilizzo, che può essere svuotato, ricaricato, nuovamente riempito o ricaricato nel rispetto delle prescrizioni di sicurezza e di igiene applicabili nonché può essere ricondizionato […].

L’antico sistema del cd. vuoto a rendere dovrebbe divenire non più eccezione bensì regola: oggi è utilizzato in Italia esclusivamente per le bottiglie d’acqua in vetro o, in realtà estere come la Germania, per le bottiglie di plastica, che sono rese dietro la restituzione di una piccola somma di denaro. La restituzione avviene all’interno degli stessi supermercati che rilasciano, in alternativa a detta somma, un buono da spendere per l’acquisto di altri beni con un sistema di grande successo.

Il legislatore europeo è stanco di indirizzare e gentilmente invitare gli Stati Membri a produrre meno rifiuti: acquistare, utilizzare e restituire sembrano essere le uniche azioni d’ora in poi consentite. E ciò sempre per il medesimo obiettivo – produrre meno rifiuti possibile – e con il medesimo spirito – contrarietà al monouso in un’ottica di sostenibilità.

Destinati a sparire sono dunque gli imballaggi monouso come i flaconi di shampoo e bagnoschiuma utilizzati negli hotel, i contenitori per frutta e verdura, nonchè le bustine di zucchero e tutti quegli imballaggi monouso inutilmente utilizzati all’interno di bar e ristoranti.

Questi limiti, queste imposizioni non dipendono dai materiali di cui sono composti i prodotti monouso: a nulla rileva, questa volta, che essi siano in plastica tradizionale o in plastica biodegradabile/compostabile o in carta. Non sono previste scappatoie, se non laddove gli imballaggi non avrebbero potuto essere progettati come riutilizzabili o i prodotti non avrebbero potuto essere immessi sul mercato senza imballaggio e sono progettati per entrare nel flusso dei rifiuti organici alla fine del ciclo di vita.

Questa volta l’Unione non consente escamotage: con la Proposta di Regolamento del 30 novembre 2022 il legislatore esclude la produzione di rifiuti, consente solo il riciclo ed il riutilizzo degli imballaggi e, laddove residualmente permetta che siano generati rifiuti, questi sono concepiti solo come compostabili.

La via percorsa da Bruxelles è ormai tracciata da anni e non resta che adeguarsi: Reduce. Reuse. Recycle.

Avv. Rosanna Ciavola

 

 

Pubblicato su Altalex 

Il “Legal Show”: la vita privata dell’avvocato ai tempi dei social network - di Avv.ti Rosanna e Antonino Ciavola

1.   


 Il Il caso di cronaca

A gennaio 2022, un’avvocatessa del Foro di Torino ha – oseremmo dire sfortunatamente – deciso di aprire un profilo nelle piattaforme social di Instagram e Facebook, denominato “dclegalshow”: lo spettacolo del mondo dell’avvocatura, dentro e fuori le aule di giustizia torinesi.

I social network sono sovente utilizzati dagli avvocati come canale di comunicazione della propria attività, come luogo di interconnessione in cui avviare dibattiti ed approfondire temi d’interesse comune.

A condivisioni di questo tipo pensava l’incolpata che, mostrandosi in eleganti abiti da lavoro, intervistava personaggi del settore e ne condivideva estratti video. Pubblicava anche contenuti relativi alla sua vita privata: sport in palestra ed in montagna, terme e centri benessere, aperitivi e cene in locali all’ultima moda.

Dopo aver ricevuto una serie di aspre critiche per gli abiti indossati e mostrati sul canale, ritenuti da alcuni dei colleghi succinti ed eccessivamente rivelatori delle forme, nonché accuse di strumentalizzazione del proprio corpo e del proprio fascino per farsi pubblicità, l’incolpata – destinataria di una pluralità di esposti disciplinari e richiamata dall’Ordine di appartenenza nell’esercizio della vigilanza di cui all’art. 29, lettera f, della Legge professionale – ha reagito modificando il tenore delle proprie condivisioni: ironizzando sulle accuse rivoltele, si è mostrata intenta a lavorare al pc, seminuda, con accanto una bottiglia di champagne ed un codice penale; china sotto la scrivania di un collega, raccogliendo una penna; o ancora distesa su un divano a forma di labbra, coperta dalla sola toga.

Ella ha accompagnato tali condivisioni con espressioni provocatorie rivolte proprio a quei colleghi, in qualche modo ritenuti moralisti, che l’avevano segnalata al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati quando ancora, in origine, ella si limitava a condividere contenuti di natura giuridica, insieme a immagini relative al cd. post office torinese – di cui ogni lavoratore dovrebbe avere la libertà di godere.

La situazione è poi precipitata dopo una serie di interviste televisive rilasciate dall’incolpata, ormai sotto i riflettori tanto da venir chiamata come concorrente del reality show Pechino Express, al quale ha partecipato.

Tutto ciò ha provocato un vero e proprio tsunami nell’ambiente forense torinese, il cui Consiglio Disciplinare ha recentemente condannato l’avvocatessa a mesi quindici di sospensione dall’esercizio della professione forense: il profilo dclegalshow  le è costato caro, è stata ritenuta colpevole di aver posto in essere condotte lontane dai principi di serietà e sobrietà ai quali dovrebbe ispirarsi l’esercizio della professione, di aver utilizzato tecniche non lecite per farsi conoscere e per ricavare notorietà […] compromettendo in modo rilevantissimo l’immagine della professione forense, tenendo un comportamento complessivo particolarmente sprezzante, gravissimamente irrispettoso delle istituzioni forensi (così si è pronunziato il CDD di Torino e ampi passaggi della motivazione sono stati riportati testualmente dalla stampa).

L’avvocato ha certamente reagito in modo estremo alle critiche subìte, peggiorando la propria posizione, ma siamo certi che la condanna sia conforme a quanto dispone la legge professionale?

Dove termina la violazione dei doveri deontologici dell’avvocato ed inizia la caccia alle streghe? Siamo dinanzi ad organi forensi, come ritenuto dall’incolpata, “moralisti” oppure davvero l’avvocatessa poteva far meglio o, diremmo più correttamente, doveva far meno? Analizziamo la normativa.

2.    La normativa ritenuta violata

D Dovere di dignità, probità e decoro – Artt. 2 e 9, comma 2 Codice Deontologico Forense

La condotta dell’incolpata sembra violare i doveri di decoro, probità e dignità previsti dall’art. 9 del Codice Deontologico Forense, ed in particolare dal secondo comma che così recita: “L’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense”.

Parimenti violato appare l’articolo 2 del medesimo Codice Deontologico Forense, che estende l’applicazione delle norme deontologiche anche ai comportamenti nella vita privata, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine della professione forense.

L’argomento dà impulso ad un amplissimo approfondimento, essendo innumerevoli le condotte che un avvocato – che prima di essere un professionista del mondo legale è un essere umano – potrebbe porre in essere, danneggiando, anche senza volerlo, la propria reputazione, la propria serietà agli occhi del pubblico, la propria credibilità e, insieme, quella dell’intera classe forense di appartenenza.

La giurisprudenza del C.N.F. è sempre stata chiara sul punto: le condotte poste in essere nella vita privata o meglio, secondo la nuova formulazione su trascritta, al di fuori dello svolgimento dell’attività professionale, assumono rilevanza laddove la figura del soggetto che le ponga in essere sia ricondotta o facilmente riconducibile alla classe forense. In altre parole, essenziale è la notorietà: lo stesso fatto, riprovevole secondo la comune coscienza, diventa occasione per irrogare la sanzione disciplinare solo quando assuma una rilevanza esterna, mentre se resta segreto appartiene alla vita privata non valutabile dagli organi disciplinari (cfr. https://www.altalex.com/documents/news/2008/04/25/lina-il-grande-fratello-e-la-deontologia-della-vita-privata).

L’avvocato non deve essere perfetto, ma deve evitare comportamenti indecorosi, sia nell’esercizio della professione che in altre attività che nella vita privata, tali da gettare discredito sull’avvocatura (CDD di Genova, decisione n° 11 del 17 dicembre 2019 – nello stesso senso Cass. Civ., SS.UU., 6 luglio 2021, sentenza n° 20383 e Cass. Civ., SS.UU., 11 luglio 2017, ordinanza n° 17115).

Pertanto dev’essere chiaro che un individuo non dovrebbe, sol perché avvocato, privarsi di condurre una florida vita sociale, di esporre il proprio corpo coperto da un costume mentre si trova al mare o in sauna, oppure da abbigliamento alla moda, succinto o meno che sia, né di praticare sport e mostrarne – peccando anche di “narcisismo ed esibizionismo” – fieramente i risultati: siffatte limitazioni lederebbero la libertà di espressione che, come correttamente evidenziato dall’incolpata, nel nostro ordinamento è sancita a livello costituzionale dall’art. 21.

Il limite che la normativa pone all’avvocato è molto più sottile: ciò che non può fare è strumentalizzare il proprio corpo ed associare la vita forense a cd. generose esposizioni delle forme, all’uso di alcol, alla sovraesposizione bulimica dell’immagine e dell’aspetto fisico, nonché alla strumentalizzazione della toga, simbolo supremo dell’avvocatura, utilizzata dall’incolpata per degli scatti definiti dal CDD torinese appropriati per un format di taglio erotico. In altre parole, il limite è – anche – il buon costume ma esclusivamente in presenza di una qualche riconducibilità dell’individuo alla professione forense.

La condotta dell’incolpata ha avuto così tanta risonanza, è stata così duramente perseguita, perché realizzata spendendo il titolo di avvocato, all’interno di profili social accessibili a tutti ed inequivocabilmente riferiti alla propria professione, che ambiva ad essere mostrata come degna di un telefilm americano, come spassosa, priva di noia, letteralmente come parte di uno show: “lo show legale è reale” recita infatti la sigla dei profili social dell’incolpata. La messa in primo piano della toga, sul corpo seminudo dell’avvocatessa, ha probabilmente rappresentato l’elemento chiave dell’intera incolpazione: durissime le parole del CDD torinese che, pronunziandosi sul punto, ha ritenuto la toga ai fianchi e con la schiena nuda all’apice della gravità deontologica, rappresentando questa il simbolo dell’avvocatura, un indumento da portare con orgoglio e non da indossare per suscitare pulsioni ed emozioni erotiche.

Dovere di corretta informazione – Artt. 17 e 35 Codice Deontologico Forense

La strumentalizzazione del corpo ha comportato, inoltre, la violazione di un ulteriore principio generale imposto dal Codice Deontologico Forense, e cioè dell’articolo 17, secondo cui le informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, devono essere trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non denigratorie o suggestive e non comparative. In ogni caso le informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.

Orbene, all’incolpata è addebitata, sotto questo profilo, l’eccessiva messa in mostra del proprio stile di vita che – ispirato a quello degli avvocati delle serie televisive americane – parrebbe, a parere del CDD torinese, voler suggestionare il pubblico con un mix di video e scatti, alcuni vagamente hot, che intrecciavano la vita legale e quella glamour, tra toghe, abiti firmati e borse Chanel.

Posto che – in linea con quanto abbiamo considerato al punto precedente – nulla di male vi è nell’indossare capi firmati (che essi siano acquistati coi proventi del duro lavoro o regalati o ereditati), la condotta è stata considerata rilevante dal punto di vista disciplinare per il suo inevitabile intreccio con l’art. 35 del Codice Deontologico che, richiamando i medesimi principi di cui all’art. 17, vieta all’avvocato di fornire al pubblico informazioni sulla propria attività professionale ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti all’attività professionale.

Il CDD piemontese ha condannato la pubblicità posta in essere dall’incolpata poiché tramite lo sfoggio della propria vita mondana ella avrebbe in qualche modo “incantato” il pubblico, procacciandosi clientela mediante condivisione di informazioni non relative alla propria carriera, ma solo al proprio aspetto, e, in particolare, ingannando la collettività in merito alle proprie reali sostanze e alle reali attività lavorative poste in essere: un’avvocatessa così giovane, a parere dell’Organo torinese, non potrebbe permettersi una vita del tenore mostrato dall’incolpata che, così, si sarebbe macchiata anche della violazione dei suddetti artt. 17 e 35 del Codice Deontologico. Anche qui sorge spontaneo notare una forma di pregiudizio: fin dove è lecito spingersi nel giudicare la promozione di se? Non sono state diffuse informazioni non veritiere in merito al curriculum (come, ad esempio, incarichi lavorativi inesistenti, esperienze in un determinato settore mai avute) bensì esaltazioni del proprio stile di vita, che a nulla dovrebbe rilevare nella valutazione delle competenze professionali di un avvocato. L’utilizzo del condizionale (dovrebbe rilevare) è ahinoi voluto: il decadimento dei valori che negli ultimi anni macchia la nostra società porta certamente a condividere i dubbi del CDD torinese, poiché non è possibile escludere che una buona fetta della popolazione italiana sia suggestionata ed attirata dalla cd. bella vita.

Trovandoci in uno scalino più alto – e parlando non di costume bensì di legge – è lecito chiedersi se sia proporzionato condannare ad oltre un anno di sospensione un avvocato per una pluralità di condotte non tipizzate e lesive di principi generali che una sanzione non la prevedono e, ancora, se sia lecito ampliare le sanzioni che talune norme violate prevedono, sino a renderle pari o addirittura peggiori di quelle che sovente si addebitano ad avvocati macchiatisi di delitti.

 A titolo meramente esemplificativo: Cass. Civ., SS.UU., sentenza n° 12798/17 (sospensione di un anno all’avvocato che ha suggerito al cliente di commettere azioni illecite); CDD Napoli, sentenza n° 28/2023 (censura all’avvocato per inadempimento al mandato e omissione di informazioni al cliente), CNF, sentenza n° 19 del 28 febbraio 2023 (sospensione di un anno e sei mesi all’avvocato condannato per truffa); CNF, sentenza n° 62 del 13 maggio 2022 (sospensione di un anno all’avvocato che pubblicizza il proprio studio con la propaganda “paghi solo in caso di vittoria”); CNF, sentenza n° 127 del 17 luglio 2022 (sospensione di due mesi all’avvocato che chieda un compenso pari a quattro volte quello previsto dai parametri forensi); CNF, sentenza n° 105 del 18 luglio 2011 (sospensione di sei mesi all’avvocato macchiatosi di indebito trattenimento di somme di denaro).

3.    La tipizzazione sempre più attenuata

L’articolo 3 della Legge professionale forense n° 247/2012 prevede che “il codice deontologico stabilisce le norme di comportamento che l’avvocato è tenuto ad osservare […] ed individua espressamente fra le norme in esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. Tali norme, per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa indicazione della sanzione applicabile”.

Il legislatore ha sancito, in rotta con la libertà avuta dagli organi disciplinari sino alla riforma, un sistema basato sulla tipizzazione: nessun comportamento può essere sanzionato se non laddove espressamente individuato all’interno del Codice Deontologico e laddove connesso ad una specifica sanzione.

La giurisprudenza sembra però aver interpretato le parole per quanto possibile, contenute nell’articolo summenzionato, come un lasciapassare per sanzionare tutti quei comportamenti non specificatamente previsti dal codice deontologico ma, comunque, considerati lesivi dei principi ivi contenuti.

Su questo profilo rinviamo a https://www.altalex.com/documents/news/2018/04/23/codice-deontologico-forense-la-tipizzazione-fa-un-passo-indietro.

Come meglio illustrato nell’articolo appena citato, si è prima consolidato un indirizzo giurisprudenziale e poi, in conseguenza, è stato modificato il Codice Deontologico, prevedendo che qualunque violazione delle generali regole di condotta costituisce un illecito disciplinare.

Sembra così che la tipizzazione sia stata di fatto eliminata, ma in effetti l’apparente antinomia può trovare una risposta andando a scavare nelle radici della deontologia forense.

Prima della formale adozione di un codice deontologico ne esistevano alcuni adottati a livello territoriale dai singoli Consigli dell’Ordine; uno dei più antichi è quello approvato il 20 novembre 1964 dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Padova, ed è un documento rilevante che, per comodità di consultazione, riportiamo in appendice.

L’art. 6 di questo antico codice deontologico afferma che il difensore deve indossare la toga con le distinzioni che gli competono, dignitosamente, consapevole del valore che essa rappresenta.

Il rispetto della toga è quindi un dovere insito nella coscienza degli avvocati: si potrebbe pensare che la sua violazione non sia punibile solo perché nel codice deontologico attuale non c’è scritto?

La risposta affermativa potrebbe essere formalmente corretta, nel rispetto dell’obbligo di tipizzazione degli illeciti, ma sarebbe sostanzialmente aberrante essendo chiaro che il dileggio o lo svilimento della toga rientrerebbe a pieno titolo tra quei comportamenti indicati dall’art. 3 della Legge Professionale Forense che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare.

Ci riferiamo al pubblico interesse perché la toga non è soltanto un simbolo forense ma, più ampiamente, è un simbolo di giustizia, essendo indossata anche dai magistrati, cancellieri e ufficiali giudiziari (per queste ultime due figure, chi ha avuto la possibilità di partecipare a udienze in Corte Costituzionale, Corte dei Conti e Consiglio di Stato ne avrà preso atto).

Un secondo esempio: l’art. 10 del codice deontologico patavino afferma che i giovani devono rispetto ai Colleghi più anziani. Questo potrebbe sembrare un reperto ormai superato, degradato a livello di comportamenti di buona o cattiva educazione, eppure ancora oggi costituisce una delle lamentele più frequenti che si riscontrano in concreto nell’ambiente forense, dove il fatto di essere tutti colleghi sembra aver svilito quella tradizionale forma di rispetto che, come abbiamo appena dimostrato, è insita nella collettività forense.

Valgono le stesse considerazioni svolte per il rispetto della toga: nessuna norma prevede oggi espressamente il rispetto (che non va confuso con la sottomissione) nei confronti dei colleghi più anziani, ma certamente una grave violazione sconfinante nel dileggio potrebbe ben essere sanzionata in base ai principi generali, malgrado non tipizzata.

La soluzione rispetto all’apparente antinomia che dicevamo può quindi rinvenirsi nella considerazione che i principi generali del Codice Deontologico appartengono alla collettività degli avvocati anche se non esplicitati, e in tal senso la modifica apportata ritrova una sua logica.

4.    La sproporzione della sanzione disciplinare applicata

La condotta provocatoria ed esibizionista dell’avvocato torinese sembra violare plurimi principi generali del Codice Deontologico, che però, rappresentano, per quanto tali, norme prive della specifica tipizzazione delle condotte imposta dall’art. 3 della Legge Professionale per l’irrogazione e l’applicazione di una sanzione.

La violazione di siffatti principi deve essere, fuori da ogni dubbio e per le considerazioni illustrate, elemento di valutazione della complessiva condotta dell’incolpata ma non basta a giustificare una sanzione grave come quella applicata alla torinese.

La disposizione della norma primaria – che prevale, ovviamente, su quella secondaria del codice deontologico – significa che vi possono pur essere dei comportamenti eticamente riprovevoli e come tali non consentiti dal codice deontologico; ma che non tutti tali comportamenti sono sanzionabili dal punto di vista disciplinare, o almeno devono essere ricondotti per analogia a quelli che prevedono una pena edittale.

Queste sono le ragioni che portarono all’obbligo di tipizzazione, la cui attenuazione rappresenta il ritorno a un sistema basato più su considerazioni morali che, in quanto tali, sono necessariamente soggettive.

Occorre quindi indagare sulle singole violazioni ravvisabili nei comportamenti dell’incolpata, valutarne le pene edittali previste e verificare se la complessiva sanzione inflitta sia in linea con esse.

Orbene, la violazione dei principi generali summenzionati non prevede sanzione.

La violazione dell’art. 35, invece, prevede la censura, che in casi gravi può essere aggravata fino a due mesi di sospensione. Ancora, considerando nel caso analizzato la rilevanza data dall’organo di disciplina al cd. strepitus fori generato dall’avvocatessa torinese – nei suoi rapporti con organi di informazione – si potrebbe considerare violato anche l’art. 57 del Codice Deontologico che, però, proprio nel rispetto della norma primaria dettata dall’art. 3 della Legge 247/12, sanziona le violazioni relative al segreto d’indagine, alla spendita del nome dei propri clienti, all’enfasi delle proprie capacità professionali e alla violazione dei doveri nei confronti dei minori. Queste gravi violazioni, intuitivamente rilevanti perché lesive di un pubblico interesse, sono le uniche che prevedono la pena edittale della sospensione (peraltro da due a sei mesi), ma per fattispecie che appaiono oggettivamente più gravi rispetto a quelle dell’incolpata.

Pertanto, anche ipotizzando una pluralità di violazioni, che vanno da quelle dei principi generali a quelle più specifiche dei rapporti con la stampa e dei limiti all’attività di informazione, riteniamo che la sanzione massima applicabile non potesse spingersi oltre pochi mesi di sospensione.

La sanzione inflitta – che peraltro è sub judice, potendo essere impugnata innanzi al Consiglio Nazionale Forense – non sembra conforme alle pene edittali previste dal Codice Deontologico, ma appare esagerata e punitiva nei confronti di una avvocatessa che avrà probabilmente esagerato con il proprio comportamento e con le reazioni alle critiche e agli inviti alla moderazione, ma non fino al punto di compromettere una intera attività professionale. La motivazione della sanzione, infatti, non può limitarsi a soggettive valutazioni di natura morale: le regole deontologiche sono sì norme di diritto su base etica, ma è necessaria la proporzionalità rispetto alle pene edittali fissate dal Codice Deontologico.

 

Avv. Rosanna Ciavola                                                                                                    Avv. Antonino Ciavola

 

Pubblicato su Altalex 7.2023