1.
Il Il caso di cronaca
A gennaio 2022, un’avvocatessa
del Foro di Torino ha – oseremmo dire sfortunatamente – deciso di aprire un
profilo nelle piattaforme social di Instagram e Facebook, denominato “dclegalshow”: lo spettacolo del mondo
dell’avvocatura, dentro e fuori le aule di giustizia torinesi.
I social network sono
sovente utilizzati dagli avvocati come canale di comunicazione della propria
attività, come luogo di interconnessione in cui avviare dibattiti ed
approfondire temi d’interesse comune.
A condivisioni di
questo tipo pensava l’incolpata che, mostrandosi in eleganti abiti da lavoro,
intervistava personaggi del settore e ne condivideva estratti video. Pubblicava
anche contenuti relativi alla sua vita privata: sport in palestra ed in
montagna, terme e centri benessere, aperitivi e cene in locali all’ultima moda.
Dopo aver ricevuto
una serie di aspre critiche per gli abiti indossati e mostrati sul canale,
ritenuti da alcuni dei colleghi succinti ed eccessivamente rivelatori delle
forme, nonché accuse di strumentalizzazione del proprio corpo e del proprio
fascino per farsi pubblicità, l’incolpata – destinataria di una pluralità di esposti
disciplinari e richiamata dall’Ordine di appartenenza nell’esercizio della
vigilanza di cui all’art. 29, lettera f, della Legge professionale – ha reagito
modificando il tenore delle proprie condivisioni: ironizzando sulle accuse
rivoltele, si è mostrata intenta a lavorare al pc, seminuda, con accanto una
bottiglia di champagne ed un codice penale; china sotto la scrivania di un
collega, raccogliendo una penna; o ancora distesa su un divano a forma di
labbra, coperta dalla sola toga.
Ella ha accompagnato
tali condivisioni con espressioni provocatorie rivolte proprio a quei colleghi,
in qualche modo ritenuti moralisti, che l’avevano segnalata al Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati quando ancora, in origine, ella si limitava a
condividere contenuti di natura giuridica, insieme a immagini relative al cd. post office torinese – di cui ogni
lavoratore dovrebbe avere la libertà di godere.
La situazione è poi precipitata
dopo una serie di interviste televisive rilasciate dall’incolpata, ormai sotto
i riflettori tanto da venir chiamata come concorrente del reality show Pechino
Express, al quale ha partecipato.
Tutto ciò ha provocato
un vero e proprio tsunami nell’ambiente forense torinese, il cui Consiglio
Disciplinare ha recentemente condannato l’avvocatessa a mesi quindici di
sospensione dall’esercizio della professione forense: il profilo dclegalshow le è costato caro, è stata ritenuta colpevole
di aver posto in essere condotte lontane
dai principi di serietà e sobrietà ai quali dovrebbe ispirarsi l’esercizio
della professione, di aver utilizzato tecniche
non lecite per farsi conoscere e per ricavare notorietà […] compromettendo in
modo rilevantissimo l’immagine della professione forense, tenendo un
comportamento complessivo particolarmente sprezzante, gravissimamente
irrispettoso delle istituzioni forensi (così si è pronunziato il CDD di
Torino e ampi passaggi della motivazione sono stati riportati testualmente
dalla stampa).
L’avvocato ha
certamente reagito in modo estremo alle critiche subìte, peggiorando la propria
posizione, ma siamo certi che la condanna sia conforme a quanto dispone la
legge professionale?
Dove termina la
violazione dei doveri deontologici dell’avvocato ed inizia la caccia alle
streghe? Siamo dinanzi ad organi forensi, come ritenuto dall’incolpata, “moralisti”
oppure davvero l’avvocatessa poteva far meglio o, diremmo più correttamente,
doveva far meno? Analizziamo la normativa.
2.
La normativa ritenuta
violata
D Dovere di dignità,
probità e decoro – Artt. 2 e 9, comma
2 Codice Deontologico Forense
La condotta
dell’incolpata sembra violare i doveri di decoro, probità e dignità previsti
dall’art. 9 del Codice Deontologico Forense, ed in particolare dal secondo
comma che così recita: “L’avvocato, anche
al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità,
dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine
della professione forense”.
Parimenti violato
appare l’articolo 2 del medesimo Codice Deontologico Forense, che estende
l’applicazione delle norme deontologiche anche
ai comportamenti nella vita privata, quando ne risulti compromessa la
reputazione personale o l’immagine della professione forense.
L’argomento dà
impulso ad un amplissimo approfondimento, essendo innumerevoli le condotte che
un avvocato – che prima di essere un professionista del mondo legale è un
essere umano – potrebbe porre in essere, danneggiando, anche senza volerlo, la
propria reputazione, la propria serietà agli occhi del pubblico, la propria
credibilità e, insieme, quella dell’intera classe forense di appartenenza.
La giurisprudenza del
C.N.F. è sempre stata chiara sul punto: le condotte poste in essere nella vita
privata o meglio, secondo la nuova formulazione su trascritta, al di fuori dello svolgimento dell’attività
professionale, assumono rilevanza laddove la figura del soggetto che le
ponga in essere sia ricondotta o facilmente riconducibile alla classe forense.
In altre parole, essenziale è la notorietà: lo stesso fatto, riprovevole
secondo la comune coscienza, diventa occasione per irrogare la sanzione
disciplinare solo quando assuma una rilevanza esterna, mentre se resta segreto
appartiene alla vita privata non valutabile dagli organi disciplinari (cfr. https://www.altalex.com/documents/news/2008/04/25/lina-il-grande-fratello-e-la-deontologia-della-vita-privata).
L’avvocato
non deve essere perfetto, ma deve evitare comportamenti indecorosi, sia
nell’esercizio della professione che in altre attività che nella vita privata,
tali da gettare discredito sull’avvocatura (CDD di Genova,
decisione n° 11 del 17 dicembre 2019 – nello stesso senso Cass. Civ., SS.UU., 6
luglio 2021, sentenza n° 20383 e Cass. Civ., SS.UU., 11 luglio 2017, ordinanza
n° 17115).
Pertanto dev’essere
chiaro che un individuo non dovrebbe, sol perché avvocato, privarsi di condurre
una florida vita sociale, di esporre il proprio corpo coperto da un costume mentre
si trova al mare o in sauna, oppure da abbigliamento alla moda, succinto o meno
che sia, né di praticare sport e mostrarne – peccando anche di “narcisismo ed
esibizionismo” – fieramente i risultati: siffatte limitazioni lederebbero la
libertà di espressione che, come correttamente evidenziato dall’incolpata, nel
nostro ordinamento è sancita a livello costituzionale dall’art. 21.
Il limite che la
normativa pone all’avvocato è molto più sottile: ciò che non può fare è
strumentalizzare il proprio corpo ed associare la vita forense a cd. generose esposizioni delle forme, all’uso
di alcol, alla sovraesposizione bulimica
dell’immagine e dell’aspetto fisico, nonché alla strumentalizzazione della
toga, simbolo supremo dell’avvocatura, utilizzata dall’incolpata per degli
scatti definiti dal CDD torinese appropriati
per un format di taglio erotico. In altre parole, il limite è – anche – il
buon costume ma esclusivamente in
presenza di una qualche riconducibilità dell’individuo alla professione forense.
La condotta
dell’incolpata ha avuto così tanta risonanza, è stata così duramente
perseguita, perché realizzata spendendo il titolo di avvocato, all’interno di
profili social accessibili a tutti ed inequivocabilmente riferiti alla propria
professione, che ambiva ad essere mostrata come degna di un telefilm americano,
come spassosa, priva di noia, letteralmente come parte di uno show: “lo show legale è reale” recita infatti
la sigla dei profili social dell’incolpata. La messa in primo piano della toga,
sul corpo seminudo dell’avvocatessa, ha probabilmente rappresentato l’elemento
chiave dell’intera incolpazione: durissime le parole del CDD torinese che,
pronunziandosi sul punto, ha ritenuto la
toga ai fianchi e con la schiena nuda all’apice della gravità deontologica, rappresentando
questa il simbolo dell’avvocatura, un indumento da portare con orgoglio e non
da indossare per suscitare pulsioni ed
emozioni erotiche.
Dovere di corretta
informazione – Artt. 17 e 35
Codice Deontologico Forense
La
strumentalizzazione del corpo ha comportato, inoltre, la violazione di un
ulteriore principio generale imposto dal Codice Deontologico Forense, e cioè dell’articolo
17, secondo cui le informazioni diffuse
pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, devono essere
trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, non
denigratorie o suggestive e non comparative. In ogni caso le informazioni
offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione
professionale.
Orbene, all’incolpata
è addebitata, sotto questo profilo, l’eccessiva messa in mostra del proprio
stile di vita che – ispirato a quello degli avvocati delle serie televisive
americane – parrebbe, a parere del CDD torinese, voler suggestionare il
pubblico con un mix di video e scatti,
alcuni vagamente hot, che intrecciavano la vita legale e quella glamour, tra
toghe, abiti firmati e borse Chanel.
Posto che – in linea
con quanto abbiamo considerato al punto precedente – nulla di male vi è
nell’indossare capi firmati (che essi siano acquistati coi proventi del duro
lavoro o regalati o ereditati), la condotta è stata considerata rilevante dal
punto di vista disciplinare per il suo inevitabile intreccio con l’art. 35 del
Codice Deontologico che, richiamando i medesimi principi di cui all’art. 17,
vieta all’avvocato di fornire al pubblico informazioni sulla propria attività
professionale ingannevoli, denigratorie,
suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non
inerenti all’attività professionale.
Il CDD piemontese ha
condannato la pubblicità posta in essere dall’incolpata poiché tramite lo
sfoggio della propria vita mondana ella avrebbe in qualche modo “incantato” il
pubblico, procacciandosi clientela mediante condivisione di informazioni non
relative alla propria carriera, ma solo al proprio aspetto, e, in particolare, ingannando
la collettività in merito alle proprie reali sostanze e alle reali attività
lavorative poste in essere: un’avvocatessa così giovane, a parere dell’Organo
torinese, non potrebbe permettersi una vita del tenore mostrato dall’incolpata
che, così, si sarebbe macchiata anche della violazione dei suddetti artt. 17 e
35 del Codice Deontologico. Anche qui sorge spontaneo notare una forma di
pregiudizio: fin dove è lecito spingersi nel giudicare la promozione di se? Non
sono state diffuse informazioni non veritiere in merito al curriculum (come, ad
esempio, incarichi lavorativi inesistenti, esperienze in un determinato settore
mai avute) bensì esaltazioni del proprio stile di vita, che a nulla dovrebbe
rilevare nella valutazione delle competenze professionali di un avvocato.
L’utilizzo del condizionale (dovrebbe
rilevare) è ahinoi voluto: il decadimento dei valori che negli ultimi anni
macchia la nostra società porta certamente a condividere i dubbi del CDD
torinese, poiché non è possibile escludere che una buona fetta della
popolazione italiana sia suggestionata ed attirata dalla cd. bella vita.
Trovandoci in uno
scalino più alto – e parlando non di costume bensì di legge – è lecito
chiedersi se sia proporzionato condannare ad oltre un anno di sospensione un avvocato
per una pluralità di condotte non tipizzate e lesive di principi generali che
una sanzione non la prevedono e, ancora, se sia lecito ampliare le sanzioni che
talune norme violate prevedono, sino a renderle pari o addirittura peggiori di
quelle che sovente si addebitano ad avvocati macchiatisi di delitti.
A titolo meramente esemplificativo: Cass.
Civ., SS.UU., sentenza n° 12798/17 (sospensione di un anno all’avvocato che ha
suggerito al cliente di commettere azioni illecite); CDD Napoli, sentenza
n° 28/2023 (censura all’avvocato per inadempimento al mandato e omissione di
informazioni al cliente), CNF, sentenza n° 19 del 28 febbraio 2023
(sospensione di un anno e sei mesi all’avvocato condannato per truffa);
CNF, sentenza n° 62 del 13 maggio 2022 (sospensione di un anno all’avvocato che
pubblicizza il proprio studio con la propaganda “paghi solo in caso di
vittoria”); CNF, sentenza n° 127 del 17 luglio 2022 (sospensione di due mesi
all’avvocato che chieda un compenso pari a quattro volte quello previsto dai
parametri forensi); CNF, sentenza n° 105 del 18 luglio 2011 (sospensione di sei
mesi all’avvocato macchiatosi di indebito trattenimento di somme di denaro).
3.
La tipizzazione sempre
più attenuata
L’articolo 3 della
Legge professionale forense n° 247/2012 prevede che “il codice deontologico stabilisce le norme di comportamento che
l’avvocato è tenuto ad osservare […] ed individua espressamente fra le norme in
esso contenute quelle che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al
corretto esercizio della professione, hanno rilevanza disciplinare. Tali norme,
per quanto possibile, devono essere caratterizzate dall’osservanza del
principio della tipizzazione della condotta e devono contenere l’espressa
indicazione della sanzione applicabile”.
Il legislatore ha
sancito, in rotta con la libertà avuta dagli organi disciplinari sino alla
riforma, un sistema basato sulla tipizzazione: nessun comportamento può essere
sanzionato se non laddove espressamente individuato all’interno del Codice
Deontologico e laddove connesso ad una specifica sanzione.
La giurisprudenza
sembra però aver interpretato le parole per
quanto possibile, contenute nell’articolo summenzionato, come un lasciapassare
per sanzionare tutti quei comportamenti non specificatamente previsti dal
codice deontologico ma, comunque, considerati lesivi dei principi ivi contenuti.
Su questo profilo
rinviamo a https://www.altalex.com/documents/news/2018/04/23/codice-deontologico-forense-la-tipizzazione-fa-un-passo-indietro.
Come meglio
illustrato nell’articolo appena citato, si è prima consolidato un indirizzo
giurisprudenziale e poi, in conseguenza, è stato modificato il Codice
Deontologico, prevedendo che qualunque violazione delle generali regole di
condotta costituisce un illecito disciplinare.
Sembra così che la
tipizzazione sia stata di fatto eliminata, ma in effetti l’apparente antinomia
può trovare una risposta andando a scavare nelle radici della deontologia
forense.
Prima della formale
adozione di un codice deontologico ne esistevano alcuni adottati a livello
territoriale dai singoli Consigli dell’Ordine; uno dei più antichi è quello
approvato il 20 novembre 1964 dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati e
Procuratori di Padova, ed è un documento rilevante che, per comodità di
consultazione, riportiamo in appendice.
L’art. 6 di questo
antico codice deontologico afferma che il
difensore deve indossare la toga con le distinzioni che gli competono,
dignitosamente, consapevole del valore che essa rappresenta.
Il rispetto della
toga è quindi un dovere insito nella coscienza degli avvocati: si potrebbe
pensare che la sua violazione non sia punibile solo perché nel codice
deontologico attuale non c’è scritto?
La risposta
affermativa potrebbe essere formalmente corretta, nel rispetto dell’obbligo di
tipizzazione degli illeciti, ma sarebbe sostanzialmente aberrante essendo
chiaro che il dileggio o lo svilimento della toga rientrerebbe a pieno titolo
tra quei comportamenti indicati dall’art. 3 della Legge Professionale Forense
che, rispondendo alla tutela di un pubblico interesse al corretto esercizio
della professione, hanno rilevanza disciplinare.
Ci riferiamo al
pubblico interesse perché la toga non è soltanto un simbolo forense ma, più
ampiamente, è un simbolo di giustizia, essendo indossata anche dai magistrati,
cancellieri e ufficiali giudiziari (per queste ultime due figure, chi ha avuto
la possibilità di partecipare a udienze in Corte Costituzionale, Corte dei
Conti e Consiglio di Stato ne avrà preso atto).
Un secondo esempio:
l’art. 10 del codice deontologico patavino afferma che i giovani devono rispetto ai Colleghi più anziani. Questo potrebbe
sembrare un reperto ormai superato, degradato a livello di comportamenti di
buona o cattiva educazione, eppure ancora oggi costituisce una delle lamentele
più frequenti che si riscontrano in concreto nell’ambiente forense, dove il
fatto di essere tutti colleghi sembra aver svilito quella tradizionale forma di
rispetto che, come abbiamo appena dimostrato, è insita nella collettività
forense.
Valgono le stesse
considerazioni svolte per il rispetto della toga: nessuna norma prevede oggi
espressamente il rispetto (che non va confuso con la sottomissione) nei
confronti dei colleghi più anziani, ma certamente una grave violazione
sconfinante nel dileggio potrebbe ben essere sanzionata in base ai principi
generali, malgrado non tipizzata.
La soluzione rispetto
all’apparente antinomia che dicevamo può quindi rinvenirsi nella considerazione
che i principi generali del Codice Deontologico appartengono alla collettività
degli avvocati anche se non esplicitati, e in tal senso la modifica apportata
ritrova una sua logica.
4.
La sproporzione della
sanzione disciplinare applicata
La condotta
provocatoria ed esibizionista dell’avvocato torinese sembra violare plurimi
principi generali del Codice Deontologico, che però, rappresentano, per quanto
tali, norme prive della specifica tipizzazione delle condotte imposta dall’art.
3 della Legge Professionale per l’irrogazione e l’applicazione di una sanzione.
La violazione di
siffatti principi deve essere, fuori da ogni dubbio e per le considerazioni
illustrate, elemento di valutazione della complessiva condotta dell’incolpata
ma non basta a giustificare una sanzione grave come quella applicata alla
torinese.
La disposizione della
norma primaria – che prevale, ovviamente, su quella secondaria del codice
deontologico – significa che vi possono pur essere dei comportamenti eticamente
riprovevoli e come tali non consentiti dal codice deontologico; ma che non
tutti tali comportamenti sono sanzionabili dal punto di vista disciplinare, o
almeno devono essere ricondotti per analogia a quelli che prevedono una pena
edittale.
Queste sono le
ragioni che portarono all’obbligo di tipizzazione, la cui attenuazione
rappresenta il ritorno a un sistema basato più su considerazioni morali che, in
quanto tali, sono necessariamente soggettive.
Occorre quindi
indagare sulle singole violazioni ravvisabili nei comportamenti dell’incolpata,
valutarne le pene edittali previste e verificare se la complessiva sanzione
inflitta sia in linea con esse.
Orbene, la violazione
dei principi generali summenzionati non prevede sanzione.
La violazione
dell’art. 35, invece, prevede la censura, che in casi gravi può essere
aggravata fino a due mesi di sospensione. Ancora, considerando nel caso
analizzato la rilevanza data dall’organo di disciplina al cd. strepitus fori generato dall’avvocatessa
torinese – nei suoi rapporti con organi di informazione – si potrebbe
considerare violato anche l’art. 57 del Codice Deontologico che, però, proprio
nel rispetto della norma primaria dettata dall’art. 3 della Legge 247/12, sanziona
le violazioni relative al segreto d’indagine, alla spendita del nome dei propri
clienti, all’enfasi delle proprie capacità professionali e alla violazione dei
doveri nei confronti dei minori. Queste gravi violazioni, intuitivamente
rilevanti perché lesive di un pubblico interesse, sono le uniche che prevedono
la pena edittale della sospensione (peraltro da due a sei mesi), ma per
fattispecie che appaiono oggettivamente più gravi rispetto a quelle
dell’incolpata.
Pertanto, anche
ipotizzando una pluralità di violazioni, che vanno da quelle dei principi
generali a quelle più specifiche dei rapporti con la stampa e dei limiti
all’attività di informazione, riteniamo che la sanzione massima applicabile non
potesse spingersi oltre pochi mesi di sospensione.
La sanzione inflitta
– che peraltro è sub judice, potendo
essere impugnata innanzi al Consiglio Nazionale Forense – non sembra conforme
alle pene edittali previste dal Codice Deontologico, ma appare esagerata e
punitiva nei confronti di una avvocatessa che avrà probabilmente esagerato con
il proprio comportamento e con le reazioni alle critiche e agli inviti alla
moderazione, ma non fino al punto di compromettere una intera attività
professionale. La motivazione della sanzione, infatti, non può limitarsi a
soggettive valutazioni di natura morale: le regole deontologiche sono sì norme
di diritto su base etica, ma è necessaria la proporzionalità rispetto alle pene
edittali fissate dal Codice Deontologico.
Avv. Rosanna Ciavola Avv. Antonino Ciavola
Pubblicato su Altalex 7.2023