venerdì 24 ottobre 2025

Lotta alla cd. “medicina difensiva”: riflessione sul D.D.L. in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie - Avv. Rosanna Ciavola

 


George Bernard Shaw una volta ha scritto: “Non è che abbiamo perso la fede: l’abbiamo semplicemente trasferita da Dio alla professione medica”.

 

Dinanzi al recente D.D.L. proposto dal Ministero della Salute Orazio Schillaci – approvato dal Consiglio dei Ministri nell’adunanza del 4 settembre u.s. – è facile chiedersi da dove nasca la necessità di fornire uno scudo alla classe medica, destinataria di un numero elevatissimo di denunce, ma di rarissime condanne penali.

Numerosi medici legali, assicuratori, giornalisti, magistrati, avvocati e giuristi in generale hanno già sviscerato, per decenni, la questione della responsabilità medica.

Si tratta di un tema caro a molti, sovente fonte di guadagno per varie figure professionali – oltre che per i privati vittime di malpractices –che ha radici di natura sociologica: la collettività spesso punisce o desidera punire il medico per quello che la natura ha generato, per quello che l’esercente la professione sanitaria non è riuscito ad evitare, a prevedere, a cancellare come per miracolo – come farebbe appunto (per chi crede) un Dio.

Già qualche tempo fa, prima dell’urgenza di un’ulteriore riforma di settore, Francesco Introna aveva colto nel segno osservando che purtroppo le accuse ai medici sono diventate straordinariamente frequenti, e come è vero che tutti ricorrono al medico, così è ugualmente vero che nessuno si astiene dal giudicarne l’opera: è facile elogiare esageratamente il medico quando l’ammalato guarisce, così è altrettanto facile denigrarlo quando l’ammalato non guarisce. Avviene allora che ogni profano sappia alla perfezione ciò che si sarebbe dovuto fare e che invece non si è fatto e come quello che è stato, avrebbe dovuto invece farsi.

Che si scelga di utilizzare queste parole o quelle più risalenti dello scrittore irlandese Shaw, il concetto è ormai chiaro: il legislatore deve tutelare il cittadino dai danni derivanti da negligenza, imperizia ed imprudenza degli esercenti le professioni sanitarie, ma anche proteggere questi ultimi dagli infiniti attacchi, destinati altrimenti a moltiplicarsi, che rendono maggiormente gravoso – anche a livello prettamente psicologico – un mestiere non infallibile.

 

La responsabilità penale – riforma art. 590 sexies ed introduzione art. 590 septies c.p.

 Il Legislatore ha riformato via via nel tempo la disciplina della responsabilità penale degli esercenti le professioni sanitarie, iniziando con il noto art. 3 della Legge Balduzzi (D.L. n. 158/2012, convertito in Legge n. 189/2012) che prevedeva che “L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve [...]”.

Successivamente, anche a seguito del giudizio di legittimità della Corte Costituzionale, sono sorte numerose critiche e contrasti giurisprudenziali aventi ad oggetto i rischiosi effetti del vincolo del medico alle linee guida – scoraggiante l’azione di scelte terapeutiche meno standardizzate, ma potenzialmente più adeguate al trattamento del singolo individuo.

L’articolo è stato abrogato con l’introduzione della Legge cd. Gelli Bianco, n. 24/2017 che ha, da una parte, all’art. 5, istituzionalizzato le linee guida lasciando salva la specificità del caso concreto, e dall’altra ha meglio delineato la responsabilità penale al successivo art. 6.

La norma ha introdotto l’art. 590 sexies cod. pen. che, al comma 2, prevede che qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, ribadendo l’importanza dell’adeguatezza delle stesse alla specificità del caso concreto.

La discrezionalità del medico era ed è ancora un elemento chiave nell’individuazione della punibilità dello stesso: questi deve si attenersi alle linee guida o, in subordine, alle buone pratiche clinico assistenziali, ma saranno sempre il proprio istinto, la propria esperienza, adattati al caso concreto, ad avere la meglio nella scelta diagnostica e terapeutica da adottare.

Non dovendo questa libertà essere in alcun modo contratta ed intaccata – e ciò non per  una forma di ingiustificato buonismo verso gli esercenti le professioni sanitarie, ma per una necessaria tutela del bene dei pazienti – la normativa è stata nuovamente oggetto di riesame e, con il D.D.L. proposto dall’attuale Ministro della Salute, recante modifiche alle disposizioni in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, sono presenti maggiori tutele per la ormai fragile categoria medica.

All’articolo 7 della proposta, richiamando un po’ la formulazione dell’antica Legge Balduzzi, si legge che quando l’esercente la professione sanitaria si attiene alle linee guida come definite e

pubblicate ai sensi di legge o alle buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le predette

raccomandazioni o buone pratiche risultino adeguate alle specificità del caso concreto, è

punibile solo per colpa grave – così intrecciando, in modo più completo, l’esclusione della colpa lieve per il medico che si sia attenuto alle linee guida o alle buone pratiche, facendo salva la specificità del caso concreto che eventualmente richieda di discostarsene.

Ancora, con l’introduzione del nuovo art. 590 septies cod. pen. la punibilità per colpa grave è ulteriormente condizionata dalla scarsità delle risorse umane e materiali disponibili, nonché delle eventuali carenze organizzative, dalla inevitabilità di queste ultime, dalla mancanza, limitatezza o contraddittorietà delle conoscenze scientifiche sulla patologia o sulla terapia, della concreta disponibilità di terapie adeguate, della complessità della patologia o della concreta difficoltà dell’attività sanitaria, dello specifico ruolo svolto in caso di cooperazione multidisciplinare, nonché della presenza di situazioni di urgenza o emergenza.

Quanto si propone di introdurre comporta una estensione della previsione ex art. 2236 cod. civ. al sistema normativo penalistico – così di fatto scoraggiando la pioggia di denunzie a carico degli esercenti le professioni sanitarie.

Obiettivo della riforma sarebbe migliorare, da una parte la qualità della prestazione medica  - che sarebbe meno contratta e non più subordinata ad un rispetto “obbligato” delle linee guida per evitare conseguenze giudiziali – e dall’altra ad un alleggerimento del carico di ruolo che affolla incessantemente i Tribunali della penisola, spesso con uno spreco di risorse rispetto alla ridottissima quantità di effettive condanne a carico dei medici.

Purtroppo è necessaria una grande conoscenza non della normativa, ma delle difficoltà quotidiane connesse all’attività medico sanitaria, per comprendere a pieno la ratio del D.D.L. – conoscenza che, comprensibilmente, la maggioranza della collettività non possiede.

La proposta da dunque finalmente concretezza alle preoccupazioni che, sin dagli anni Settanta, si leggevano nella pronunzia n. 166 del 22 novembre 1973 della Corte Costituzionale: La particolare disciplina in tema di responsabilità penale, desumibile dagli artt. 589 e 42 (e meglio, 43) del codice penale, in relazione all'art. 2236 del codice civile, per l'esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, è il riflesso di una normativa dettata di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare la iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso.

Recentemente, con la pronunzia n. 248 del 25 novembre 2020, la Corte Costituzionale è tornata sul punto, evidenziando la necessità di ripetuti interventi da parte del legislatore miranti a evitare il fenomeno della cd. “medicina difensiva” ritenendo, a fronte degli indubbi profili critici dell’attuale regime di procedibilità rispetto alle lesioni provocate nell’ambito dell’attività sanitaria, quanto meno consigliata una complessiva rimeditazione delle ipotesi di reato previste dagli artt. 590 e ss. cod. pen.

Solo la colpa grave, derivante da inscusabile errore o ignoranza dei basilari principi attinenti all’esercizio dell’attività professionale, dovrebbe rilevare ai fini della responsabilità penale.

L’infallibilità degli esercenti la professione medica sembra farsi strada in modo concreto con la riforma in esame che, se vedrà concretamente la luce, la abbraccerà in tutta la sua essenza, così da ridare libertà e dignità alla classe medica.

 

La responsabilità civile: modifiche alla Legge 8 marzo 2017, n. 24

Ai sensi dell’art. 2236 cod. civ. se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.

A differenza di quanto è previsto nel sistema penalistico vigente, in ambito civile, ai fini della configurabilità della responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie, l’inadempimento non può essere desunto senz’altro dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionali ed in particolare al dovere di diligenza per il quale trova applicazione [...] il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176, secondo comma, cod. civ. il quale deve essere commisurato alla natura dell’attività esercitata [...] a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità del professionista è attenuata, configurandosi, secondo l’espresso disposto dell’art. 2236 cod. civ., solo nel caso di dolo o colpa grave (Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sez.III. sentenza 16 settembre 2025, n. 2715; conforme a Cass. Civ., Sez. II, 8 agosto 2000, n. 10431).

La punibilità è dunque limitata ai soli casi di dolo o colpa grave di cui all’anzidetto art. 2236 cod. civ., e non opera nelle ipotesi di imprudenza nè, al riguardo, rileva l’astratta conformità della tecnica adottata alle linee guida (Cass. Civ., Sez. III, ordinanza 11 dicembre 2023, n. 34516; conforme, ex multis, a Cass. Civ., Sez. II, ordinanza 20 luglio 2023, n. 21761).

La previsione dell’infallibilità del professionista – compreso il medico – si era fatta già strada nel sistema civilistico ancor prima delle recenti riforme, facendo sempre salvo però, a tutela del danneggiato, il caso di errori conclamati ed avulsi dalla peculiare difficoltà del caso, che mai può costituire una “scusante”.

Sul punto si è pronunziata la Cassazione, Sez. III, che con l’ordinanza del 12 gennaio 2024, n. 4277 ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Roma con cui era stata stabilita la condanna di un chirurgo per aver aggravato le condizioni di salute del paziente, eseguendo una indebita e non necessaria manovra sull’uretre, generando una lesione che ha determinato altre complicanze evitabili; il chirurgo aveva presentato ricorso ex art. 360 cod. proc. civ. proprio in forza della disposizione ex art. 2236 cod. civ., ritenendo sussistenti fattori di incremento della difficoltà tecnica dell’intervento chirurgico.

Gli ermellini, pur essendo pacificamente orientati nell’escludere la responsabilità civile del medico nei casi particolarmente complessi, hanno evidenziato che dinanzi all’inesattezza dell’adempimento da parte del chirurgo non è applicabile l’art. 2236 cod. civ.

Emerge chiaramente, dopo la disamina della normativa penalistica e della sua evoluzione, la differenza con quella civilistica, ben più garantista della posizione del medico.

Il D.D.L. Schillaci interviene pertanto in un terreno già fertile, aggiungendo alle già previste tutele anche una modifica al vigente art. 7 della Legge Gelli Bianco, integrato con il nuovo comma 3 bis che così reciterebbe: fermo quanto previsto dall’articolo 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa, o del grado di essa, nell’operato dell’esercente l’attività sanitaria si tiene conto anche della scarsità delle risorse umane e materiali disponibili, nonché delle eventuali carenze organizzative, quando la scarsità e le carenze non sono evitabili da parte dell’esercente l’attività sanitaria, della mancanza, limitatezza o contraddittorietà delle conoscenze scientifiche sulla patologia o sulla terapia, della concreta disponibilità di terapie adeguate, della complessità della patologia o della concreta difficoltà dell’attività sanitaria, dello specifico ruolo svolto in caso di cooperazione multidisciplinare, nonché della presenza di

situazioni di urgenza o emergenza.

Come anticipato in premessa, il D.D.L. costituisce una risposta alla crisi della società vigente, dei suoi valori ma soprattutto della professione medica – dinanzi alla gravissima carenza di organico, specialmente in reparti emergenziali come il Pronto Soccorso.

Addebitare pertanto la responsabilità per il decesso o le lesioni di un paziente non curato a regola d’arte a causa di scarsità di risorse umane sarebbe ingiusto – così come ingiusto sarebbe “punire” un medico per il fallimento delle cure su soggetto affetto da patologia non nota, o in presenza di limitate evidenze scientifiche in merito all’esito positivo della cura.

La proposta appare, a parere di chi scrive, un completamento ed una estensione della pregevole Legge Gelli Bianco che ha già ridotto in modo netto il numero di contenziosi in ambito civile grazie agli Accertamenti Tecnici Preventivi, volti alla individuazione “a monte” della sussistenza della responsabilità diretta del medico.

La nuova riforma proposta costituirebbe un ulteriore passo avanti, andando ad incidere non solo nella riduzione delle liti temerarie, ma nella concreta modifica delle norme stesse – estendendo le tutele del medico anche al più duro settore penale – agendo in modo più incisivo e cosi portando al centro dell’attività medica la personalizzazione delle cure, senza più automatismi derivanti dall’applicazione generale, a tutti i casi, delle linee guida.

 

Avv. Rosanna Ciavola

mercoledì 30 luglio 2025

Il Codice Deontologico dei medici e degli infermieri una necessaria umanità aldilà delle norme - Avv. R. Ciavola

  


All’Avv. Antonino Ciavola, mio padre

 

“Non è la carezza di chi ti assiste ad avere beneficio su di te, ma la consapevolezza che è a disposizione senza volere niente in cambio”

Policlinico di Catania – Aprile 2025.

Trattenendo le lacrime – perché piangere non sarebbe stato “da veri duri” – mio padre, citando queste bellissime parole, mi ha suggerito il titolo di un nuovo articolo, e battendosi la mano sinistra sulla fronte mi ha detto che il testo l’aveva già tutto lì.

Pochissimi giorni dopo la sua patologia continuava inesorabile le sue sorprese e così la mia vita ricominciava a suonare con parole come intubazione, estubazione, protesi, stent, procalcitonina, emodinamica, noradrenalina, saturazione.

Parlo in prima persona perchè, come mi ha assicurato uno dei suoi rianimatori, lui non aveva piena contezza di cosa stesse accadendo. Ci sono delle pratiche mediche volte ad aiutare i pazienti a non rendersi conto del pericolo che stanno attraversando.

Alcuni la chiamano sedazione.

A me piace considerarla un modo per non provare paura.

L’Avvocato Antonino Ciavola se n’è andato con immensa dignità, apprezzato da chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere la sua sottile ironia, il suo sguardo buono e la sua saggezza sconfinata.

Dedico questo articolo al personale sanitario che ha visto il peggio ed il meglio di lui, a quelle persone speciali a cui una mattina ho detto: voi per me siete gli Avengers.

 

Il tempo di relazione è tempo di cura: l’essenziale ruolo dell’empatia nelle professioni sanitarie

All’articolo 3 del Codice di Deontologia Medica è sancito il dovere di tutelare il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona.

La versione antecedente del Codice prevedeva, al posto della parola “dovere” il meno incisivo termine “compito” – sostituito al fine di mettere in evidenza il rapporto imprescindibile che deve esistere fra il medico ed il paziente, la cui tutela non deve fermarsi alla salute meramente fisica ma anche psichica.
Il successivo art. 5 puntualizza che il medico, nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche e ispirarsi ai valori etici fondamentali, assumendo come principio il rispetto non solo della vita e della salute fisica e psichica, ma anche e soprattutto della libertà e della dignità della persona essendogli vietato di soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura.

L’attività medica non è, in altre parole, limitata ad una prestazione meramente tecnica, ma è da intendersi come un intervento complesso ispirato costantemente a valori etici fondamentali.

Potrei riportare ancora altre mille parole tratte dalla normativa in esame e dai suoi commentari, ma niente sarebbe in grado di descrivere adeguatamente quello che ho visto in novanta giorni.

Conoscevo questo mondo esclusivamente dentro gli scritti difensivi, nelle perizie medico legali, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, nelle Tabelle di Milano.

Milioni di cittadini ricorrono all’Autorità Giudiziaria per rivendicare la vita di un caro perduto o irrimediabilmente compromesso e, nei casi più spiacevoli, ammettiamolo, anche per guadagnar qualcosa da un errore tecnico del medico. E allora al via la medicina difensiva, la menzione delle linee guida ministeriali, il più probabile che non da parte dei professionisti sanitari, denunziati incessantemente ed attaccati al punto da essere sovente costretti a versare ingentissime somme alle compagnie di assicurazione professionale.

Eppure c’è qualcosa che nel mondo forense abbiamo sempre valutato troppo poco: l’empatia.

E’ definita come la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro.

L’empatia andrebbe valutata ai test di ammissione alla facoltà di medicina perchè la mancanza di comprensione e di spiegazioni, configura una negligenza medica – a parere di chi scrive ben più grave di un errore di natura tecnica, derivante da imperizia, negligenza, mera disattenzione e chi più ne ha più ne metta: noi avvocati siamo abituati a porre a fondamento dei nostri scritti considerazioni di questa natura. Quando i nostri clienti hanno perduto un caro, non chiediamo mai come sono stati trattati dal personale medico, ci limitiamo spesso ad esaminare la documentazione e le relazioni peritali di parte.

Eppure, come correttamente evidenziato da Maurizio Benato – Componente del Comitato Nazionale di Boetica (CNB) e del Centro Studi FNOMCeO – per fare il medico occorre empatia, certo se uno ce l’ha innata è fortunato, ma visto che l’arte è lunga, si può imparare. L’empatia è comprensione e condivisione di intuizioni, emozioni, concetti e giudizi, l’empatia si acquisisce attraverso la relazione, l’empatia si trasmette, si impara, si condivide e si rinnova continuamente.

E’ una capacità che il Codice Deontologico Medico non sancisce a chiare lettere ma che, insieme a quella comunicativa, costituisce una solida base per arginare i conflitti ed evitare l’insorgere di controversie di natura medico legale: l’obiettivo del personale medico non andrebbe, a parere di chi scrive, circoscritto ad una preparazione eccelsa, ad un assente o basso numero di interventi con esito negativo, ma dovrebbe estendersi anche alla capacità di costituire una alleanza medico-paziente che si fondi proprio sul rispetto reciproco, sul coinvolgimento del malato nelle cure, sul conforto e sull’assistenza anche di natura emotiva – tutti elementi che aiuterebbero i comuni cittadini a smettere di vedere nei camici bianchi figure nemiche ma, al contrario, esperti di un settore che non è infallibile.

Coglie nel segno, sotto questo profilo, la formulazione del Codice Deontologico delle Professioni Infermieristiche dove si leggono, a più riprese, proprio gli essenziali principi summenzionati.

All’articolo 3 è sancito il generico obbligo di rispetto e non discriminazione nell’esercizio della professione, seguito da norme più dettagliate e concentrate sugli essenziali aspetti etici.

All’articolo 4 è previsto che nell’agire professionale, l’infermiere stabilisce una relazione di cura, utilizzando anche l’ascolto e il dialogo. Si fa garante che la persona assistita non sia mai lasciata in abbandono coinvolgendo, con il consenso dell’interessato, le sue figure di riferimento, nonchè le altre figure professionali e istituzionali.

La norma si conclude con questo essenziale concetto: il tempo di relazione è tempo di cura.

Personale medico che si premuri di informare debitamente il paziente sul suo stato di salute, che lo renda partecipe del proprio operato e che si impegni a conoscerlo ed assisterlo sotto l’aspetto emotivo, sarà positivamente considerato indipendentemente dall’esito delle cure e dalla risposta del fisico del paziente, e, difficilmente, sarà destinatario di azioni di natura legale, proprio in forza della summenzionata alleanza che, in situazioni siffatte, può o meglio dovrebbe nascere fra il personale medico ed il cittadino destinatario di cure.

Detti concetti sono ben racchiusi nell’articolo 17, secondo cui nel percorso di cura, l’infermiere valorizza e accoglie il contributo della persona, il suo punto di vista e le sue emozioni e facilita l’espressione della sofferenza. L’infermiere informa, coinvolge, educa e supporta l’interessato e con il suo libero consenso, le persone di riferimento, per favorire l’adesione al percorso di cura e per valutare e attivare le risorse disponibili, e nell’articolo 18, che sancisce l’obbligo dell’infermiere di rilevare e documentare il dolore dell’assistito durante il percorso di cura, adoperandosi applicando le buone pratiche per la gestione del dolore e dei sintomi a esso correlati, nel rispetto delle volontà della persona.

“E’ tutto molto poetico” – interverrebbe mio padre leggendo fin qui questo articolo – ma è noto che le stelle più luminose si vedono al buio e, come anticipato, l’empatia non è prescritta da alcuna norma.

 

Violazione dei doveri deontologici: uno sguardo ai provvedimenti disciplinari del C.C.E.P.S.

Se l’alleanza su descritta esistesse per davvero, i Magistrati non fronteggerebbero un ruolo carico di procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità medica e, in particolare, alla Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie volerebbero le mosche.

Con la decisione n. 77 del 2 ottobre 2019, il C.C.E.P.S. ha ritenuto responsabile un infermiere per violazione delle norme deontologiche a tutela del decoro e della dignità della professione, per aver utilizzato espressioni verbali violente nei confronti del paziente e dei suoi familiari, ancorchè utilizzate per impedire disfunzioni indotte dai medesimi nell’erogazione delle prestazioni sanitarie.

La Commissione, con riferimento a tale ultima circostanza, ha rilevato che pur non costituendo esimente di responsabilità, se congruamente valutata insieme ad altri indici (la personalità dell’incolpato, la sua storia professionale ed i suoi precedenti specifici) concorre a definirne, nell’esercizio della discrezionalità riconosciuta all’organo di disciplina in sede di graduazione della sanzione, la proporzionalità del provvedimento disciplinare.

In altre parole, è chiaro che l’infermiere, al pari di qualsiasi esercente la professione sanitaria, sia legittimato a reagire dinanzi ad una difficile gestione del paziente – sia che essa derivi da peculiarità caratteriali che da ragioni cliniche – ma senza che ciò si concretizzi in una violazione della dignità e del rispetto del malato che, come è noto, verte in una posizione di debolezza.

Ancora, in un caso che definirei più estremo, il C.C.E.P.S. ha sanzionato un medico per  il mancato rispetto della dignità del paziente e la sua irrisione, anche quando questi sia defunto, condotta considerata grave violazione dell’etica professionale e del prestigio della professione, valori in virtù dei quali il professionista è tenuto ad accompagnare con il massimo rispetto ed empatia il percorso del paziente dal momento iniziale fino alla sua conclusione, soprattutto se con esiti terminali (decisione n. 80 del 2 ottobre 2019).

Ritornando alla citazione ricordata da mio padre, non è la carezza di chi ti assiste ad avere beneficio su di te, ma la consapevolezza che è a disposizione senza volere niente in cambio.

Mettendoci per un attimo nei panni di un malato, allettato da settimane o addirittura mesi, ciò che fa la differenza è proprio la mano tesa di un infermiere che, nel cuore della notte, si renda disponibile ad ascoltare uno sfogo, a chiarire per la milionesima volta cosa sia accaduto, a sistemare un cuscino, a riattaccare il decimo saturimetro staccato in sole ventiquattro ore – lungi dallo sbuffare, lamentare l’ennesima chiamata o la ripetitività delle domande e delle richieste di conforto e assistenza.

Ancora, ciò che davvero conduce un paziente fuori dalla malattia – o meglio dalla percezione negativa della stessa – è l’attenzione del personale medico che si interessi a capire chi ci sia davvero dietro una cartella clinica apparentemente disastrosa, ma che rappresenta un diario di guerra, una guerra combattuta insieme e non per forza gli uni contro gli altri.

 

Gli obblighi informativi in capo al medico - Riflessioni conclusive

Come correttamente rilevato da uno dei rianimatori di mio padre, in uno dei temutissimi colloqui delle ore 13:00 di ogni giorno, sono proprio le spiegazioni dettagliate fornite dal personale medico ad evitare qualsivoglia malinteso, disguido e incomprensione con il paziente ed i suoi familiari.

Gli obblighi informativi sono, d’altronde, a differenza della empatia, scritti a chiare lettere nel Codice Deontologico Medico che, all’articolo 30, prevede il dovere in capo al medico di fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostiche-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate – precisando che ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta.

La norma pone attenzione anche alle modalità di comunicazione delle informazioni, specialmente quando queste siano riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, prevedendo che dette notizie siano comunicate con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza.

Leggendo queste parole, però, non posso che considerarle lettera morta dinanzi ai difficili tempi che corrono: è spesso in risalto nei notiziari italiani l’aggressione dei parenti di un paziente defunto o gravemente compromesso, che sono soliti distruggere i locali del Pronto Soccorso o, come ho ahimè potuto constatare con i miei occhi, le sale d’attesa delle terapie intensive – luoghi dove, come un saggio medico mi ha detto, molto spesso è ormai impossibile spegnere incendi accesi altrove.

Le modalità di comunicazione giocano quindi un ruolo essenziale nell’evitare illusioni in capo ai cittadini che spesso, incolpevolmente, dimenticano di trovarsi dinanzi a dei professionisti che possono anche fallire, nel combattere guerre dove in campo vi sono elementi diversi dalle capacità tecniche: la resistenza fisica del paziente, il tempo di ricovero, la gravità della patologia, il tempismo delle cure, strettamente connesso alla presenza o assenza di controlli di prevenzione da parte del malato.

L’empatia è probabilmente nascosta nell’articolo 30: chi ha redatto il Codice Deontologico Medico era sicuramente consapevole del potenziale fallimento della professione, della rabbia e del dolore di chi rimane dall’altra parte – in posizione di debolezza – e della differenza che può fare un medico dotato sì di freddezza, ma anche di compassione e delicatezza, nella guida del paziente e dei propri familiari verso l’accettazione di una prognosi infausta.

Volevo concludere questa riflessione con una citazione di James Brace, letta nel sito dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Catania: la medicina è la sola professione che lotta incessantemente per distruggere la ragione della propria esistenza.

Ma mi risuona in mente, ben più incisiva, una frase di una delle eroiche rianimatrici di “Deontologus”, mio padre, l’Avv. Antonino Ciavola, che – piena di quella empatia che sento tanto mancare in questo mondo – dopo la sua morte mi ha guidato verso la pace, ricordandomi che i medici sono sì a servizio della vita...ma non possono donarla.

                                                                                                                                                         Avv. Rosanna Ciavola

Pubblicato su Altalex

domenica 29 giugno 2025

Quando il wellness costa la libertà di scelta - Ci vuole un contratto bestiale?



Ci vuole un fisico bestiale
Perché siam sempre ad un incrocio
O sinistra, destra, oppure dritto
Il fatto è che è sempre un rischio

Ci vuole un attimo di pace, sai, di pace, sai
Di fare quello che ci piace, sai, mi piace, sai

E come dicono i proverbi
E lo dice anche mio zio
Mente sana in corpo sano
E adesso son convinto anch'io

 

…così cantava Luca Carboni, in uno dei suoi pezzi più famosi e rimasto nella storia della musica.

Mentre meditavo su questo articolo, appena letta la notizia della ingente sanzione dell’A.G.C.M. alla Virgin Active, mi veniva in mente proprio il motivetto ci vuole un fisico bestiale, pensando però al discutibile contratto che ha unito me ed altre centinaia di migliaia di sportivi ad uno dei villaggi fitness più famosi e più ricercati d’Italia: un contratto incompreso dai più, messo a disposizione ed attenzionato troppo tardi dai consumatori – guidati a sottoscriverlo mediante l’apposizione di una firma nella pagina bianca di un tablet, dopo esser stati affascinati dalla bellezza della struttura, dalla simpatia e dalla disponibilità del personale, da quell’aria di infinita serenità che, diciamocelo, solo Virgin Active sa donare.

L’incantesimo è potenzialmente destinato a durare per sempre, o meglio finchè comprovati problemi economici, malattia, gravidanza o trasferimento in città sprovvista di sede V.A.I. non ci separino. Non sono ammessi ripensamenti.

Abbandonando qualsivoglia ironia, è opportuno ricordare che, mentre il consumatore è intento ad investire il proprio tempo ed il proprio denaro nella più salutare delle attività – lo sport – non dovrebbe mai dimenticare i propri diritti, sanciti a chiare lettere dal Decreto Legislativo del 6 settembre 2005, n. 206, che ha recepito la Direttiva n. 2005/29/CE in materia del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno.

Le norme ivi contenute sono reiteratamente state violate da Virgin Active Italia che, con provvedimento del 13 giugno 2025 è stata condannata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ad una sanzione amministrativa pecuniaria di 3.000.000 di euro per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette ai sensi degli artt. 20, 21, 22, 24, 25, 26, lettera f), e 65-bis del Codice del Consumo.

A seguito di plurime di segnalazioni dei consumatori, l’A.G.C.M. ha difatti avviato un procedimento a carico della nota società, relativo alle modalità di sottoscrizione del contratto di abbonamento ai servizi fitness e wellness […] non idonee a fornire adeguate informazioni al consumatore sui termini e le condizioni di adesione, di rinnovo, di disdetta e di recesso anticipato da tale contratto […], all’assenza di qualsivoglia comunicazione preventiva, in prossimità della scadenza dell’abbonamento, finalizzata a ricordare il rinnovo automatico e il termine entro cui è possibile fare disdetta, alla mancata comunicazione delle variazioni di prezzo dell’abbonamento e, in particolare, alla presenza di ostacoli all’esercizio della facoltà di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta.

Per quanto riguarda il primo punto, l’Autorità Garante ha riscontrato che, al momento dell’iscrizione, in assenza di richiesta espressa del cliente di conoscere le Condizioni di Abbonamento a cui si sta vincolando, la stipula del contratto avveniva con la mera apposizione di una firma digitale in un tablet,  visionando una mera schermata bianca.

In altre parole, come evidenziato da uno dei tanti consumatori rivoltisi all’A.G.C.M., la sottoscrizione avviene al buio, e quando ho chiesto spiegazioni mi è stato risposto “le firme servono solo per l’accettazione del contratto, tanto poi eventualmente puoi dare disdetta/esercitare il recesso” (segnalazione prot. 0013171 del 21 febbraio 2025).

Volendo sopperire all’anzidetta carenza informativa con la facoltà, sempre presente in capo al cliente, di consultare il contratto nella propria applicazione della V.A.I., o chiedendone copia stampata al desk, si presenta comunque una grande problematica quando, terminato l’incantesimo su cui si ironizzava sopra, il consumatore desideri per davvero dare disdetta o esercitare il recesso – opzioni non consentite con la facilità originariamente prospettata dal personale di accoglienza del club.

L’A.G.C.M. ha riscontrato il rigetto, da parte di V.A.I. di varie richieste di risoluzione del contratto di abbonamento per impossibilità sopravvenuta, motivate da quelle causali che le stesse condizioni di abbonamento qualificano come impedimenti oggettivi che consentono lo scioglimento del vincolo contrattuale, quali ragioni di salute, trasferimenti in altre città o perdita del lavoro. In questi casi V.A.I. ha rifiutato – senza valide argomentazioni – tali istanze o ha ostacolato lo scioglimento del contratto con ridondanti richieste di documentazione, nonostante le istanze fossero supportate da attestazioni circa la ricorrenza della causa ostativa.

Conoscevo una persona – oggi ahimè scomparsa – che, nonostante fosse affetta da una rara forma di tumore e non potesse, logicamente, più frequentare il club, è stata costretta a presentare mensilmente un certificato medico attestante la condizione di salute impeditiva dello svolgimento di attività fisica. Virgin Active Italia pretendeva la dimostrazione mensile della permanenza del tumore, in alcun modo acconsentendo alla richiesta di recesso anticipato dal contratto.

Conosco di contro centinaia di persone che, anziché rispettare la posizione della struttura ed assecondarne le richieste, come il mio compianto amico, rimuovevano l’autorizzazione bancaria al prelievo del costo mensile dell’abbonamento, non contenti della reazione negativa della struttura.

Come rilevato dall’A.G.C.M., Virgin Active anche nei casi di mancato accoglimento delle richieste di cessazione del contratto motivate da sopravvenuti impedimenti oggettivi o da rinnovi automatici del contratto non preceduti da preavviso, oltre a continuare ad addebitare i costi per un servizio non voluto e non usufruito, ha inoltrato le pratiche a società di recupero crediti (segnalazioni prot. n. 82071 del 4 settembre 2024 e prot. n. 5452 del 27 gennaio 2025).

La ridondante richiesta di documentazione, fatta passare per una legittima richiesta dalla struttura, unitamente agli ostacoli posti all’esercizio del diritto di recesso, costituiscono pratiche commerciali scorrette cd. aggressive ai sensi del Codice del Consumo.

L’anzidetto Decreto definisce, all’art. 25, tali le pratiche commerciali caratterizzate dal ricorso ad indebito condizionamento, sussistente laddove il professionista ponga qualsiasi ostacolo, non contrattuale, oneroso o sproporzionato qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compreso il diritto di risolvere un contratto, nonché qualsiasi minaccia di promuovere un’azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata.

Il consumatore che si ritrovi nel bel mezzo di un procedimento di recupero crediti, derivante dalla violazione di una clausola contrattuale relativa ad un servizio non più desiderato, si trova certamente in una condizione di debolezza e di disagio, che il legislatore comunitario ha desiderato tutelare proprio con la normativa in esame che, all’articolo 26, lettera f), definisce pratica commerciale aggressiva – e come tale anch’essa sanzionabile – l’esigere il pagamento immediato o differito o la restituzione o custodia di prodotti che il professionista ha fornito ma il consumatore non ha richiesto.

Allontanandomi un attimo dall’esame delle segnalazioni ricevute dall’A.G.C.M., ricordo con chiarezza una personale esperienza, risalente all’epoca della pandemia da Sars-Covid19, durante cui il mio compianto padre inviò per mio conto – allora ero una praticante – una diffida alla Virgin Active Italia.

Richiedevamo la restituzione della quota parte relativa al mese di marzo 2020, pagata interamente nonostante la brevissima fruizione del servizio a causa del sopraggiungere del lockdown, unitamente al recesso dal contratto, motivato dal fatto che, nonostante la palestra avesse successivamente riaperto, le prestazioni non erano più quelle contrattualmente previste in quanto l'accesso non era più libero e senza limitazioni di orario, bensì subordinato a prenotazione e ora fissa, in violazione dell'opzione open.

La replica della struttura fu disarmante, mi venne impedito di recedere e mi venne, in compenso, proposta una estensione della durata dell'abbonamento in corso, consentendo di poter godere della prestazione già corrisposta e quindi di un periodo pari ai giorni di chiusura di febbraio e di marzo in coda all'abbonamento medesimo.

In altre parole, era l’inizio della fine: si palesavano, in capo ai consumatori, ripensamenti e necessità – anche connesse alla incolumità propria e dei propri familiari, proprio a causa della pandemia – che non venivano lontanamente considerate dalla Virgin Active, protagonista di una palese pratica aggressiva ai sensi della lettera a) del su citato art. 26 del Codice del Consumo, sanzionante il professionista che crei l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto.

La facoltà di recesso – nel nostro ordinamento disciplinata anche dagli artt. 1463 e 1464 cod. civ. – è stata negata ai consumatori in modo reiterato, così costituendo fonte di responsabilità della V.A.I., sanzionata con l’ingentissima multa di tre milioni di euro, che affolla le testate giornalistiche online e che è da molti ritenuta addirittura insufficiente a coprire le violazioni perpetrate a danno dei propri affezionati clienti.

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Unitamente a quanto sinora esaminato con maggiore ardore – a causa della diretta esperienza della sottoscritta – è opportuno citare altre violazioni, dall’A.G.C.M. ritenute anch’esse fonte di responsabilità: l’assoluta assenza di comunicazione sull’approssimarsi della scadenza annuale dell’abbonamento e sul termine utile per richiedere l’eventuale disdetta, circostanza che ha impedito ai clienti di effettuare una scelta alternativa al rinnovo automatico – così costretti a richiedere la disdetta del rinnovo automatico in epoca successiva, con aggravio di costi a proprio carico nonostante la volontà di recesso manifestata.

Anche questa costituisce una pratica commerciale scorretta poiché, come emerge in modo cristallino, siamo nuovamente dinanzi alla negazione di un diritto, quello di libera scelta di non usufruire più di un servizio, di non rinnovare un contratto che sembra essere più simile ad un patto con il diavolo.

Ultimo, ma non per importanza, comportamento sanzionato dall’A.G.C.M. è l’aver la Virgin Active Italia taciuto sulle modifiche dei prezzi degli abbonamenti, addebitando i superiori costi ai consumatori che avevano, originariamente, pattuito una cifra più bassa – giustificandosi con l’asserito miglioramento dei servizi.

Alla struttura è però sfuggita, anche in questa occasione, l’importanza nel nostro sistema normativo della libertà di scelta e di contrattazione: il consumatore ha il diritto di decidere se proseguire o meno alla nuove condizioni offerte dall’altro contraente, fornitore del servizio di fitness e wellness e, pertanto, non dovrebbe essere reso edotto sui cambiamenti, che essi siano relativi al prezzo o ai servizi, solo “a cose fatte”.

Le condotte sinora prospettate costituiscono pratiche commerciali scorrette, contrarie alla dligenza professionale – a causa della scarsissima trasparenza dimostrata – idonee a falsare il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo in errore e a fargli assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso – come espressamente previsto dalle lettere d) ed e) dell’art. 21 del Codice del Consumo.

Alla luce di tutto questo risuonano ancora più forti le parole di Luca Carboni: Ci vuole un attimo di pace, sai, di pace, sai di fare quello che ci piace, sai, mi piace, sai.

L’orientamento del Giudice di Pace di Catania

A chiusura di questa analisi, mi preme evidenziare che non tutti si sono rivolti all’Autorità Garante: uno dei clienti della struttura, di professione avvocato, ha “eroicamente” citato in giudizio la Virgin Active, chiedendo di accertare e dichiarare lo scioglimento del contratto di abbonamento annuale stipulato […] per valido esercizio del diritto di ripensamento e/o accertare e dichiarare la risoluzione contrattuale con efficacia ex tunc, previa richiesta, cautelativa, di sospensione degli addebiti su C/C e giusta declaratoria di vessatori età delle clausole dallo stesso sottoscritte – oltre al rimborso delle somme relative ai mesi “pandemici” non usufruiti e di qualsivoglia somma addebitata nelle more del giudizio.

Egli ha trionfato, ottenendo il riconoscimento dei suoi diritti.

Il Giudice di Pace ha riconosciuto il diritto di ripensamento al cliente, a fronte della vessatorietà delle clausole contrattuali, con particolare riferimento alla 14, relativa proprio al recesso, poiché non doppiamente sottoscritta dall’esponente in seno al modulo contrattuale proposto così come richiesto dall’art. 1341 c.c. e poiché non risulta che le parti l’abbiano discussa ed approvata prima della stipula.

Parimenti era riconosciuto il diritto del consumatore alla risoluzione del contratto, a fronte dell’alterazione del sinallagma contrattuale nei periodi di riapertura del Club.

Il Giudice ha rilevato che il contratto sottoscritto nei fatti non ha potuto spiegare pienamente i propri effetti, per inadempimento e/o inadempimento parziale della convenuta. La pandemia SARS-CoV2 ha, infatti, provocato la chiusura forzata di molte attività […] come le palestre la cui riapertura era subordinata, in ossequio alla normativa emergenziale vigente, ad un accesso limitato con prenotazione a 90 minuti di permanenza nel Club, in luogo del libero accesso per l’Home club e le aree relax come da contratto. Tali disposizioni concretizzatesi in vere e proprie modifiche e non in “accorgimenti” – indicati nel contratto – hanno alterato il sinallagma contrattuale e quindi hanno causato un inadempimento agli accordi sottoscritti da parte della convenuta.

La domanda del cliente era accolta: la struttura era condannata alla restituzione delle somme indebitamente trattenute ed alle spese legali relative al giudizio che, laddove la normativa vigente fosse stata rispettata, non sarebbe stato necessario avviare.

Quanti consumatori rinunciano a una siffatta tutela pagando a vuoto, pur di evitare “impicci”?

Quanti pensano “stacco il RID tanto non mi faranno mai causa”?

E quanti, dopo aver preso quest’ultima avventata decisione, si ritrovano – a distanza anche di anni – impossibilitati a frequentare il club Virgin poiché morosi di centinaia o migliaia di euro?

Ancora, quanti – stregati dall’incantesimo – pur di allenarsi nel paradiso del fitness sono disposti anche a versare le anzidette somme alla struttura, trasformandole in un “buono” da sfruttare successivamente?

Scendere a patti, cercare una conciliazione, un compromesso che sia positivo per tutte le parti è il primario compito di un avvocato – che non sempre, a differenza di quanto si creda, è soggetto litigioso – ma dinanzi ad una compressione della libertà di scelta siffatta, ne vale la pena?

 

Ci vuole un fisico bestiale
Perché siam sempre ad un incrocio
O sinistra, destra, oppure dritto
Il fatto è che è sempre un rischio

                                                                                                                                      Avv. Rosanna Ciavola

 

 Provvedimento A.G.C.M.