mercoledì 30 luglio 2025

Il Codice Deontologico dei medici e degli infermieri una necessaria umanità aldilà delle norme - Avv. R. Ciavola

  


All’Avv. Antonino Ciavola, mio padre

 

“Non è la carezza di chi ti assiste ad avere beneficio su di te, ma la consapevolezza che è a disposizione senza volere niente in cambio”

Policlinico di Catania – Aprile 2025.

Trattenendo le lacrime – perché piangere non sarebbe stato “da veri duri” – mio padre, citando queste bellissime parole, mi ha suggerito il titolo di un nuovo articolo, e battendosi la mano sinistra sulla fronte mi ha detto che il testo l’aveva già tutto lì.

Pochissimi giorni dopo la sua patologia continuava inesorabile le sue sorprese e così la mia vita ricominciava a suonare con parole come intubazione, estubazione, protesi, stent, procalcitonina, emodinamica, noradrenalina, saturazione.

Parlo in prima persona perchè, come mi ha assicurato uno dei suoi rianimatori, lui non aveva piena contezza di cosa stesse accadendo. Ci sono delle pratiche mediche volte ad aiutare i pazienti a non rendersi conto del pericolo che stanno attraversando.

Alcuni la chiamano sedazione.

A me piace considerarla un modo per non provare paura.

L’Avvocato Antonino Ciavola se n’è andato con immensa dignità, apprezzato da chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere la sua sottile ironia, il suo sguardo buono e la sua saggezza sconfinata.

Dedico questo articolo al personale sanitario che ha visto il peggio ed il meglio di lui, a quelle persone speciali a cui una mattina ho detto: voi per me siete gli Avengers.

 

Il tempo di relazione è tempo di cura: l’essenziale ruolo dell’empatia nelle professioni sanitarie

All’articolo 3 del Codice di Deontologia Medica è sancito il dovere di tutelare il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona.

La versione antecedente del Codice prevedeva, al posto della parola “dovere” il meno incisivo termine “compito” – sostituito al fine di mettere in evidenza il rapporto imprescindibile che deve esistere fra il medico ed il paziente, la cui tutela non deve fermarsi alla salute meramente fisica ma anche psichica.
Il successivo art. 5 puntualizza che il medico, nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze scientifiche e ispirarsi ai valori etici fondamentali, assumendo come principio il rispetto non solo della vita e della salute fisica e psichica, ma anche e soprattutto della libertà e della dignità della persona essendogli vietato di soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura.

L’attività medica non è, in altre parole, limitata ad una prestazione meramente tecnica, ma è da intendersi come un intervento complesso ispirato costantemente a valori etici fondamentali.

Potrei riportare ancora altre mille parole tratte dalla normativa in esame e dai suoi commentari, ma niente sarebbe in grado di descrivere adeguatamente quello che ho visto in novanta giorni.

Conoscevo questo mondo esclusivamente dentro gli scritti difensivi, nelle perizie medico legali, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, nelle Tabelle di Milano.

Milioni di cittadini ricorrono all’Autorità Giudiziaria per rivendicare la vita di un caro perduto o irrimediabilmente compromesso e, nei casi più spiacevoli, ammettiamolo, anche per guadagnar qualcosa da un errore tecnico del medico. E allora al via la medicina difensiva, la menzione delle linee guida ministeriali, il più probabile che non da parte dei professionisti sanitari, denunziati incessantemente ed attaccati al punto da essere sovente costretti a versare ingentissime somme alle compagnie di assicurazione professionale.

Eppure c’è qualcosa che nel mondo forense abbiamo sempre valutato troppo poco: l’empatia.

E’ definita come la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro.

L’empatia andrebbe valutata ai test di ammissione alla facoltà di medicina perchè la mancanza di comprensione e di spiegazioni, configura una negligenza medica – a parere di chi scrive ben più grave di un errore di natura tecnica, derivante da imperizia, negligenza, mera disattenzione e chi più ne ha più ne metta: noi avvocati siamo abituati a porre a fondamento dei nostri scritti considerazioni di questa natura. Quando i nostri clienti hanno perduto un caro, non chiediamo mai come sono stati trattati dal personale medico, ci limitiamo spesso ad esaminare la documentazione e le relazioni peritali di parte.

Eppure, come correttamente evidenziato da Maurizio Benato – Componente del Comitato Nazionale di Boetica (CNB) e del Centro Studi FNOMCeO – per fare il medico occorre empatia, certo se uno ce l’ha innata è fortunato, ma visto che l’arte è lunga, si può imparare. L’empatia è comprensione e condivisione di intuizioni, emozioni, concetti e giudizi, l’empatia si acquisisce attraverso la relazione, l’empatia si trasmette, si impara, si condivide e si rinnova continuamente.

E’ una capacità che il Codice Deontologico Medico non sancisce a chiare lettere ma che, insieme a quella comunicativa, costituisce una solida base per arginare i conflitti ed evitare l’insorgere di controversie di natura medico legale: l’obiettivo del personale medico non andrebbe, a parere di chi scrive, circoscritto ad una preparazione eccelsa, ad un assente o basso numero di interventi con esito negativo, ma dovrebbe estendersi anche alla capacità di costituire una alleanza medico-paziente che si fondi proprio sul rispetto reciproco, sul coinvolgimento del malato nelle cure, sul conforto e sull’assistenza anche di natura emotiva – tutti elementi che aiuterebbero i comuni cittadini a smettere di vedere nei camici bianchi figure nemiche ma, al contrario, esperti di un settore che non è infallibile.

Coglie nel segno, sotto questo profilo, la formulazione del Codice Deontologico delle Professioni Infermieristiche dove si leggono, a più riprese, proprio gli essenziali principi summenzionati.

All’articolo 3 è sancito il generico obbligo di rispetto e non discriminazione nell’esercizio della professione, seguito da norme più dettagliate e concentrate sugli essenziali aspetti etici.

All’articolo 4 è previsto che nell’agire professionale, l’infermiere stabilisce una relazione di cura, utilizzando anche l’ascolto e il dialogo. Si fa garante che la persona assistita non sia mai lasciata in abbandono coinvolgendo, con il consenso dell’interessato, le sue figure di riferimento, nonchè le altre figure professionali e istituzionali.

La norma si conclude con questo essenziale concetto: il tempo di relazione è tempo di cura.

Personale medico che si premuri di informare debitamente il paziente sul suo stato di salute, che lo renda partecipe del proprio operato e che si impegni a conoscerlo ed assisterlo sotto l’aspetto emotivo, sarà positivamente considerato indipendentemente dall’esito delle cure e dalla risposta del fisico del paziente, e, difficilmente, sarà destinatario di azioni di natura legale, proprio in forza della summenzionata alleanza che, in situazioni siffatte, può o meglio dovrebbe nascere fra il personale medico ed il cittadino destinatario di cure.

Detti concetti sono ben racchiusi nell’articolo 17, secondo cui nel percorso di cura, l’infermiere valorizza e accoglie il contributo della persona, il suo punto di vista e le sue emozioni e facilita l’espressione della sofferenza. L’infermiere informa, coinvolge, educa e supporta l’interessato e con il suo libero consenso, le persone di riferimento, per favorire l’adesione al percorso di cura e per valutare e attivare le risorse disponibili, e nell’articolo 18, che sancisce l’obbligo dell’infermiere di rilevare e documentare il dolore dell’assistito durante il percorso di cura, adoperandosi applicando le buone pratiche per la gestione del dolore e dei sintomi a esso correlati, nel rispetto delle volontà della persona.

“E’ tutto molto poetico” – interverrebbe mio padre leggendo fin qui questo articolo – ma è noto che le stelle più luminose si vedono al buio e, come anticipato, l’empatia non è prescritta da alcuna norma.

 

Violazione dei doveri deontologici: uno sguardo ai provvedimenti disciplinari del C.C.E.P.S.

Se l’alleanza su descritta esistesse per davvero, i Magistrati non fronteggerebbero un ruolo carico di procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità medica e, in particolare, alla Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie volerebbero le mosche.

Con la decisione n. 77 del 2 ottobre 2019, il C.C.E.P.S. ha ritenuto responsabile un infermiere per violazione delle norme deontologiche a tutela del decoro e della dignità della professione, per aver utilizzato espressioni verbali violente nei confronti del paziente e dei suoi familiari, ancorchè utilizzate per impedire disfunzioni indotte dai medesimi nell’erogazione delle prestazioni sanitarie.

La Commissione, con riferimento a tale ultima circostanza, ha rilevato che pur non costituendo esimente di responsabilità, se congruamente valutata insieme ad altri indici (la personalità dell’incolpato, la sua storia professionale ed i suoi precedenti specifici) concorre a definirne, nell’esercizio della discrezionalità riconosciuta all’organo di disciplina in sede di graduazione della sanzione, la proporzionalità del provvedimento disciplinare.

In altre parole, è chiaro che l’infermiere, al pari di qualsiasi esercente la professione sanitaria, sia legittimato a reagire dinanzi ad una difficile gestione del paziente – sia che essa derivi da peculiarità caratteriali che da ragioni cliniche – ma senza che ciò si concretizzi in una violazione della dignità e del rispetto del malato che, come è noto, verte in una posizione di debolezza.

Ancora, in un caso che definirei più estremo, il C.C.E.P.S. ha sanzionato un medico per  il mancato rispetto della dignità del paziente e la sua irrisione, anche quando questi sia defunto, condotta considerata grave violazione dell’etica professionale e del prestigio della professione, valori in virtù dei quali il professionista è tenuto ad accompagnare con il massimo rispetto ed empatia il percorso del paziente dal momento iniziale fino alla sua conclusione, soprattutto se con esiti terminali (decisione n. 80 del 2 ottobre 2019).

Ritornando alla citazione ricordata da mio padre, non è la carezza di chi ti assiste ad avere beneficio su di te, ma la consapevolezza che è a disposizione senza volere niente in cambio.

Mettendoci per un attimo nei panni di un malato, allettato da settimane o addirittura mesi, ciò che fa la differenza è proprio la mano tesa di un infermiere che, nel cuore della notte, si renda disponibile ad ascoltare uno sfogo, a chiarire per la milionesima volta cosa sia accaduto, a sistemare un cuscino, a riattaccare il decimo saturimetro staccato in sole ventiquattro ore – lungi dallo sbuffare, lamentare l’ennesima chiamata o la ripetitività delle domande e delle richieste di conforto e assistenza.

Ancora, ciò che davvero conduce un paziente fuori dalla malattia – o meglio dalla percezione negativa della stessa – è l’attenzione del personale medico che si interessi a capire chi ci sia davvero dietro una cartella clinica apparentemente disastrosa, ma che rappresenta un diario di guerra, una guerra combattuta insieme e non per forza gli uni contro gli altri.

 

Gli obblighi informativi in capo al medico - Riflessioni conclusive

Come correttamente rilevato da uno dei rianimatori di mio padre, in uno dei temutissimi colloqui delle ore 13:00 di ogni giorno, sono proprio le spiegazioni dettagliate fornite dal personale medico ad evitare qualsivoglia malinteso, disguido e incomprensione con il paziente ed i suoi familiari.

Gli obblighi informativi sono, d’altronde, a differenza della empatia, scritti a chiare lettere nel Codice Deontologico Medico che, all’articolo 30, prevede il dovere in capo al medico di fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostiche-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate – precisando che ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta.

La norma pone attenzione anche alle modalità di comunicazione delle informazioni, specialmente quando queste siano riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, prevedendo che dette notizie siano comunicate con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza.

Leggendo queste parole, però, non posso che considerarle lettera morta dinanzi ai difficili tempi che corrono: è spesso in risalto nei notiziari italiani l’aggressione dei parenti di un paziente defunto o gravemente compromesso, che sono soliti distruggere i locali del Pronto Soccorso o, come ho ahimè potuto constatare con i miei occhi, le sale d’attesa delle terapie intensive – luoghi dove, come un saggio medico mi ha detto, molto spesso è ormai impossibile spegnere incendi accesi altrove.

Le modalità di comunicazione giocano quindi un ruolo essenziale nell’evitare illusioni in capo ai cittadini che spesso, incolpevolmente, dimenticano di trovarsi dinanzi a dei professionisti che possono anche fallire, nel combattere guerre dove in campo vi sono elementi diversi dalle capacità tecniche: la resistenza fisica del paziente, il tempo di ricovero, la gravità della patologia, il tempismo delle cure, strettamente connesso alla presenza o assenza di controlli di prevenzione da parte del malato.

L’empatia è probabilmente nascosta nell’articolo 30: chi ha redatto il Codice Deontologico Medico era sicuramente consapevole del potenziale fallimento della professione, della rabbia e del dolore di chi rimane dall’altra parte – in posizione di debolezza – e della differenza che può fare un medico dotato sì di freddezza, ma anche di compassione e delicatezza, nella guida del paziente e dei propri familiari verso l’accettazione di una prognosi infausta.

Volevo concludere questa riflessione con una citazione di James Brace, letta nel sito dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Catania: la medicina è la sola professione che lotta incessantemente per distruggere la ragione della propria esistenza.

Ma mi risuona in mente, ben più incisiva, una frase di una delle eroiche rianimatrici di “Deontologus”, mio padre, l’Avv. Antonino Ciavola, che – piena di quella empatia che sento tanto mancare in questo mondo – dopo la sua morte mi ha guidato verso la pace, ricordandomi che i medici sono sì a servizio della vita...ma non possono donarla.

                                                                                                                                                         Avv. Rosanna Ciavola

Pubblicato su Altalex

domenica 29 giugno 2025

Quando il wellness costa la libertà di scelta - Ci vuole un contratto bestiale?



Ci vuole un fisico bestiale
Perché siam sempre ad un incrocio
O sinistra, destra, oppure dritto
Il fatto è che è sempre un rischio

Ci vuole un attimo di pace, sai, di pace, sai
Di fare quello che ci piace, sai, mi piace, sai

E come dicono i proverbi
E lo dice anche mio zio
Mente sana in corpo sano
E adesso son convinto anch'io

 

…così cantava Luca Carboni, in uno dei suoi pezzi più famosi e rimasto nella storia della musica.

Mentre meditavo su questo articolo, appena letta la notizia della ingente sanzione dell’A.G.C.M. alla Virgin Active, mi veniva in mente proprio il motivetto ci vuole un fisico bestiale, pensando però al discutibile contratto che ha unito me ed altre centinaia di migliaia di sportivi ad uno dei villaggi fitness più famosi e più ricercati d’Italia: un contratto incompreso dai più, messo a disposizione ed attenzionato troppo tardi dai consumatori – guidati a sottoscriverlo mediante l’apposizione di una firma nella pagina bianca di un tablet, dopo esser stati affascinati dalla bellezza della struttura, dalla simpatia e dalla disponibilità del personale, da quell’aria di infinita serenità che, diciamocelo, solo Virgin Active sa donare.

L’incantesimo è potenzialmente destinato a durare per sempre, o meglio finchè comprovati problemi economici, malattia, gravidanza o trasferimento in città sprovvista di sede V.A.I. non ci separino. Non sono ammessi ripensamenti.

Abbandonando qualsivoglia ironia, è opportuno ricordare che, mentre il consumatore è intento ad investire il proprio tempo ed il proprio denaro nella più salutare delle attività – lo sport – non dovrebbe mai dimenticare i propri diritti, sanciti a chiare lettere dal Decreto Legislativo del 6 settembre 2005, n. 206, che ha recepito la Direttiva n. 2005/29/CE in materia del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno.

Le norme ivi contenute sono reiteratamente state violate da Virgin Active Italia che, con provvedimento del 13 giugno 2025 è stata condannata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ad una sanzione amministrativa pecuniaria di 3.000.000 di euro per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette ai sensi degli artt. 20, 21, 22, 24, 25, 26, lettera f), e 65-bis del Codice del Consumo.

A seguito di plurime di segnalazioni dei consumatori, l’A.G.C.M. ha difatti avviato un procedimento a carico della nota società, relativo alle modalità di sottoscrizione del contratto di abbonamento ai servizi fitness e wellness […] non idonee a fornire adeguate informazioni al consumatore sui termini e le condizioni di adesione, di rinnovo, di disdetta e di recesso anticipato da tale contratto […], all’assenza di qualsivoglia comunicazione preventiva, in prossimità della scadenza dell’abbonamento, finalizzata a ricordare il rinnovo automatico e il termine entro cui è possibile fare disdetta, alla mancata comunicazione delle variazioni di prezzo dell’abbonamento e, in particolare, alla presenza di ostacoli all’esercizio della facoltà di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta.

Per quanto riguarda il primo punto, l’Autorità Garante ha riscontrato che, al momento dell’iscrizione, in assenza di richiesta espressa del cliente di conoscere le Condizioni di Abbonamento a cui si sta vincolando, la stipula del contratto avveniva con la mera apposizione di una firma digitale in un tablet,  visionando una mera schermata bianca.

In altre parole, come evidenziato da uno dei tanti consumatori rivoltisi all’A.G.C.M., la sottoscrizione avviene al buio, e quando ho chiesto spiegazioni mi è stato risposto “le firme servono solo per l’accettazione del contratto, tanto poi eventualmente puoi dare disdetta/esercitare il recesso” (segnalazione prot. 0013171 del 21 febbraio 2025).

Volendo sopperire all’anzidetta carenza informativa con la facoltà, sempre presente in capo al cliente, di consultare il contratto nella propria applicazione della V.A.I., o chiedendone copia stampata al desk, si presenta comunque una grande problematica quando, terminato l’incantesimo su cui si ironizzava sopra, il consumatore desideri per davvero dare disdetta o esercitare il recesso – opzioni non consentite con la facilità originariamente prospettata dal personale di accoglienza del club.

L’A.G.C.M. ha riscontrato il rigetto, da parte di V.A.I. di varie richieste di risoluzione del contratto di abbonamento per impossibilità sopravvenuta, motivate da quelle causali che le stesse condizioni di abbonamento qualificano come impedimenti oggettivi che consentono lo scioglimento del vincolo contrattuale, quali ragioni di salute, trasferimenti in altre città o perdita del lavoro. In questi casi V.A.I. ha rifiutato – senza valide argomentazioni – tali istanze o ha ostacolato lo scioglimento del contratto con ridondanti richieste di documentazione, nonostante le istanze fossero supportate da attestazioni circa la ricorrenza della causa ostativa.

Conoscevo una persona – oggi ahimè scomparsa – che, nonostante fosse affetta da una rara forma di tumore e non potesse, logicamente, più frequentare il club, è stata costretta a presentare mensilmente un certificato medico attestante la condizione di salute impeditiva dello svolgimento di attività fisica. Virgin Active Italia pretendeva la dimostrazione mensile della permanenza del tumore, in alcun modo acconsentendo alla richiesta di recesso anticipato dal contratto.

Conosco di contro centinaia di persone che, anziché rispettare la posizione della struttura ed assecondarne le richieste, come il mio compianto amico, rimuovevano l’autorizzazione bancaria al prelievo del costo mensile dell’abbonamento, non contenti della reazione negativa della struttura.

Come rilevato dall’A.G.C.M., Virgin Active anche nei casi di mancato accoglimento delle richieste di cessazione del contratto motivate da sopravvenuti impedimenti oggettivi o da rinnovi automatici del contratto non preceduti da preavviso, oltre a continuare ad addebitare i costi per un servizio non voluto e non usufruito, ha inoltrato le pratiche a società di recupero crediti (segnalazioni prot. n. 82071 del 4 settembre 2024 e prot. n. 5452 del 27 gennaio 2025).

La ridondante richiesta di documentazione, fatta passare per una legittima richiesta dalla struttura, unitamente agli ostacoli posti all’esercizio del diritto di recesso, costituiscono pratiche commerciali scorrette cd. aggressive ai sensi del Codice del Consumo.

L’anzidetto Decreto definisce, all’art. 25, tali le pratiche commerciali caratterizzate dal ricorso ad indebito condizionamento, sussistente laddove il professionista ponga qualsiasi ostacolo, non contrattuale, oneroso o sproporzionato qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compreso il diritto di risolvere un contratto, nonché qualsiasi minaccia di promuovere un’azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata.

Il consumatore che si ritrovi nel bel mezzo di un procedimento di recupero crediti, derivante dalla violazione di una clausola contrattuale relativa ad un servizio non più desiderato, si trova certamente in una condizione di debolezza e di disagio, che il legislatore comunitario ha desiderato tutelare proprio con la normativa in esame che, all’articolo 26, lettera f), definisce pratica commerciale aggressiva – e come tale anch’essa sanzionabile – l’esigere il pagamento immediato o differito o la restituzione o custodia di prodotti che il professionista ha fornito ma il consumatore non ha richiesto.

Allontanandomi un attimo dall’esame delle segnalazioni ricevute dall’A.G.C.M., ricordo con chiarezza una personale esperienza, risalente all’epoca della pandemia da Sars-Covid19, durante cui il mio compianto padre inviò per mio conto – allora ero una praticante – una diffida alla Virgin Active Italia.

Richiedevamo la restituzione della quota parte relativa al mese di marzo 2020, pagata interamente nonostante la brevissima fruizione del servizio a causa del sopraggiungere del lockdown, unitamente al recesso dal contratto, motivato dal fatto che, nonostante la palestra avesse successivamente riaperto, le prestazioni non erano più quelle contrattualmente previste in quanto l'accesso non era più libero e senza limitazioni di orario, bensì subordinato a prenotazione e ora fissa, in violazione dell'opzione open.

La replica della struttura fu disarmante, mi venne impedito di recedere e mi venne, in compenso, proposta una estensione della durata dell'abbonamento in corso, consentendo di poter godere della prestazione già corrisposta e quindi di un periodo pari ai giorni di chiusura di febbraio e di marzo in coda all'abbonamento medesimo.

In altre parole, era l’inizio della fine: si palesavano, in capo ai consumatori, ripensamenti e necessità – anche connesse alla incolumità propria e dei propri familiari, proprio a causa della pandemia – che non venivano lontanamente considerate dalla Virgin Active, protagonista di una palese pratica aggressiva ai sensi della lettera a) del su citato art. 26 del Codice del Consumo, sanzionante il professionista che crei l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto.

La facoltà di recesso – nel nostro ordinamento disciplinata anche dagli artt. 1463 e 1464 cod. civ. – è stata negata ai consumatori in modo reiterato, così costituendo fonte di responsabilità della V.A.I., sanzionata con l’ingentissima multa di tre milioni di euro, che affolla le testate giornalistiche online e che è da molti ritenuta addirittura insufficiente a coprire le violazioni perpetrate a danno dei propri affezionati clienti.

*****

Unitamente a quanto sinora esaminato con maggiore ardore – a causa della diretta esperienza della sottoscritta – è opportuno citare altre violazioni, dall’A.G.C.M. ritenute anch’esse fonte di responsabilità: l’assoluta assenza di comunicazione sull’approssimarsi della scadenza annuale dell’abbonamento e sul termine utile per richiedere l’eventuale disdetta, circostanza che ha impedito ai clienti di effettuare una scelta alternativa al rinnovo automatico – così costretti a richiedere la disdetta del rinnovo automatico in epoca successiva, con aggravio di costi a proprio carico nonostante la volontà di recesso manifestata.

Anche questa costituisce una pratica commerciale scorretta poiché, come emerge in modo cristallino, siamo nuovamente dinanzi alla negazione di un diritto, quello di libera scelta di non usufruire più di un servizio, di non rinnovare un contratto che sembra essere più simile ad un patto con il diavolo.

Ultimo, ma non per importanza, comportamento sanzionato dall’A.G.C.M. è l’aver la Virgin Active Italia taciuto sulle modifiche dei prezzi degli abbonamenti, addebitando i superiori costi ai consumatori che avevano, originariamente, pattuito una cifra più bassa – giustificandosi con l’asserito miglioramento dei servizi.

Alla struttura è però sfuggita, anche in questa occasione, l’importanza nel nostro sistema normativo della libertà di scelta e di contrattazione: il consumatore ha il diritto di decidere se proseguire o meno alla nuove condizioni offerte dall’altro contraente, fornitore del servizio di fitness e wellness e, pertanto, non dovrebbe essere reso edotto sui cambiamenti, che essi siano relativi al prezzo o ai servizi, solo “a cose fatte”.

Le condotte sinora prospettate costituiscono pratiche commerciali scorrette, contrarie alla dligenza professionale – a causa della scarsissima trasparenza dimostrata – idonee a falsare il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo in errore e a fargli assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso – come espressamente previsto dalle lettere d) ed e) dell’art. 21 del Codice del Consumo.

Alla luce di tutto questo risuonano ancora più forti le parole di Luca Carboni: Ci vuole un attimo di pace, sai, di pace, sai di fare quello che ci piace, sai, mi piace, sai.

L’orientamento del Giudice di Pace di Catania

A chiusura di questa analisi, mi preme evidenziare che non tutti si sono rivolti all’Autorità Garante: uno dei clienti della struttura, di professione avvocato, ha “eroicamente” citato in giudizio la Virgin Active, chiedendo di accertare e dichiarare lo scioglimento del contratto di abbonamento annuale stipulato […] per valido esercizio del diritto di ripensamento e/o accertare e dichiarare la risoluzione contrattuale con efficacia ex tunc, previa richiesta, cautelativa, di sospensione degli addebiti su C/C e giusta declaratoria di vessatori età delle clausole dallo stesso sottoscritte – oltre al rimborso delle somme relative ai mesi “pandemici” non usufruiti e di qualsivoglia somma addebitata nelle more del giudizio.

Egli ha trionfato, ottenendo il riconoscimento dei suoi diritti.

Il Giudice di Pace ha riconosciuto il diritto di ripensamento al cliente, a fronte della vessatorietà delle clausole contrattuali, con particolare riferimento alla 14, relativa proprio al recesso, poiché non doppiamente sottoscritta dall’esponente in seno al modulo contrattuale proposto così come richiesto dall’art. 1341 c.c. e poiché non risulta che le parti l’abbiano discussa ed approvata prima della stipula.

Parimenti era riconosciuto il diritto del consumatore alla risoluzione del contratto, a fronte dell’alterazione del sinallagma contrattuale nei periodi di riapertura del Club.

Il Giudice ha rilevato che il contratto sottoscritto nei fatti non ha potuto spiegare pienamente i propri effetti, per inadempimento e/o inadempimento parziale della convenuta. La pandemia SARS-CoV2 ha, infatti, provocato la chiusura forzata di molte attività […] come le palestre la cui riapertura era subordinata, in ossequio alla normativa emergenziale vigente, ad un accesso limitato con prenotazione a 90 minuti di permanenza nel Club, in luogo del libero accesso per l’Home club e le aree relax come da contratto. Tali disposizioni concretizzatesi in vere e proprie modifiche e non in “accorgimenti” – indicati nel contratto – hanno alterato il sinallagma contrattuale e quindi hanno causato un inadempimento agli accordi sottoscritti da parte della convenuta.

La domanda del cliente era accolta: la struttura era condannata alla restituzione delle somme indebitamente trattenute ed alle spese legali relative al giudizio che, laddove la normativa vigente fosse stata rispettata, non sarebbe stato necessario avviare.

Quanti consumatori rinunciano a una siffatta tutela pagando a vuoto, pur di evitare “impicci”?

Quanti pensano “stacco il RID tanto non mi faranno mai causa”?

E quanti, dopo aver preso quest’ultima avventata decisione, si ritrovano – a distanza anche di anni – impossibilitati a frequentare il club Virgin poiché morosi di centinaia o migliaia di euro?

Ancora, quanti – stregati dall’incantesimo – pur di allenarsi nel paradiso del fitness sono disposti anche a versare le anzidette somme alla struttura, trasformandole in un “buono” da sfruttare successivamente?

Scendere a patti, cercare una conciliazione, un compromesso che sia positivo per tutte le parti è il primario compito di un avvocato – che non sempre, a differenza di quanto si creda, è soggetto litigioso – ma dinanzi ad una compressione della libertà di scelta siffatta, ne vale la pena?

 

Ci vuole un fisico bestiale
Perché siam sempre ad un incrocio
O sinistra, destra, oppure dritto
Il fatto è che è sempre un rischio

                                                                                                                                      Avv. Rosanna Ciavola

 

 Provvedimento A.G.C.M. 

 


 


lunedì 23 giugno 2025

Cancellazione dall’albo per violazione degli obblighi formativi dell’avvocato - Decreto Ministero della Giustizia 47/2016: una normativa senza conseguenze?


 

Sir Francis Bacon scriveva che la conoscenza è potere.

Un concetto semplice ma illuminante, che nel corso della storia si è presentato in più forme, divenendo oggetto delle riflessioni di più studiosi, filosofi, personaggi pubblici – tutti accomunati dal desiderio di insegnarci che sapere rende grandi, sapere può cambiare il mondo.

L’arma più potente che esista – così definiva il sapere anche Nelson Mandela – è oggi oggetto di un obbligo per i professionisti intellettuali, come gli avvocati, che nella conoscenza, nell’intelligenza, nella cultura e nella capacità di giudizio fondano un mestiere utile alla collettività.

Lo sancisce a chiare lettere il Decreto del Ministero della Giustizia n. 47 del 25 febbraio 2016 che, all’articolo 2, commi 1 e 2, ha previsto in capo al Consiglio dell’Ordine oneri di verifica triennale, nei confronti degli avvocati iscritti all’albo, della sussistenza dell’esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente – individuata in elementi fra cui proprio il rispetto dell’obbligo di aggiornamento professionale secondo le modalità e le condizioni stabilite dal Consiglio Nazionale Forense.

La verifica ha ad oggetto le dichiarazioni fornite dagli avvocati, ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445/2000, e potrebbe condurre, ai sensi del successivo articolo 3, alla cancellazione dall’albo quando il Consiglio dell'Ordine circondariale accerta la mancanza dell'esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione e l'avvocato non dimostra la sussistenza di giustificati motivi oggettivi o soggettivi.

Secondo la norma, dichiarazioni incomplete, false o addirittura assenti in merito all’assolvimento degli obblighi formativi possono portare alla perdita del diritto di permanere nell’albo degli avvocati, trovandosi la ratio della disciplina esaminata proprio nel concetto di apertura del presente elaborato: la conoscenza è potere, la conoscenza è un’arma.

Come può un professionista debitamente tutelare il proprio assistito in assenza di aggiornamento, oltre che di nuovi stimoli, di nuove idee e spunti derivanti dall’esame di fattispecie che non conosceva, in assenza di interpretazioni nuove?

Sovente capita di trovare più persone fuori che dentro le aule ove si tengono i convegni, in attesa del termine dell’incontro per poter finalmente timbrare il cartellino e fuggire – con i crediti formativi in tasca, al sicuro da qualsiasi sanzione derivante dal mancato raggiungimento della soglia minima richiesta. Eppure è dentro quei corsi, apparentemente lenti, lunghi o vertenti su argomenti già noti, che si nasconde la conoscenza: non sempre e non solo la formazione ha ad oggetto il mero esame degli ultimi aggiornamenti delle – infinite e sempre più cavillose – leggi vigenti.

Il confronto fra professionisti, la spiegazione di un caso concreto – come l’esperienza di un magistrato, messa a confronto col punto di vista di un avvocato, ad esempio – può farci accendere una lampadina in mente, svelando una sfaccettatura a cui non avevamo pensato.

E’ in questi momenti che si nasconde il potere della conoscenza – che non è e non dovrebbe essere intesa come un dovere ma come una fonte di potere, di maggiore sicurezza nell’affrontare il lavoro, con in mano maggiori strumenti per fronteggiarne ogni difficoltà e conoscerne ogni sfaccettatura.

Eppure, molto spesso la stragrande maggioranza degli avvocati tralascia questi obblighi, dimenticando il concetto che sta alla base delle norme, certa di non venire sanzionata perchè – strano ma vero – la normativa su riportata è ancora oggi priva di concreta applicazione.

L’articolo 2 del Decreto n. 47/2016, all’ultimo comma, prevedeva che con decreto del Ministero della giustizia, da adottarsi entro sei mesi dall'entrata in vigore del presente regolamento – nell’aprile del 2016 – sono stabilite le modalità con cui ciascuno degli ordini circondariali individua, con sistemi automatici, le dichiarazioni sostitutive da sottoporre annualmente a controllo a campione, a norma dell'articolo 71 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.

Il decreto di attuazione non è mai venuto alla luce e, di conseguenza, il Consiglio dell’Ordine competente – laddove ravvisi una violazione degli obblighi formativi in capo all’avvocato iscritto – si limita sovente a decidere in autonomia, potendosi limitare ad agire solo in ambito disciplinare.

E’ quanto di recente accaduto a Novara, il cui C.O.A. ha interpellato il Consiglio Nazionale Forense che, con parere n. 15 del 19 aprile 2024, ha osservato che l’articolo 2, comma 5 del d.m. n. 47/2016 rinvia a successivo decreto del Ministro della Giustizia il compito di stabilire le modalità con cui ciascuno degli ordini circondariali individua, con sistemi automatici, le dichiarazioni sostitutive da sottoporre annualmente a controllo a campione. La mancata adozione del citato decreto ministeriale rende tuttora non applicabile la disciplina della cancellazione per mancato rispetto del requisito dell’esercizio continuativo della professione, anche ove derivante dal mancato assolvimento dell’obbligo formativo. Ne deriva che la cancellazione per mancato assolvimento dell’obbligo formativo non è ancora operativa e che residuano in capo al COA le opportune valutazioni in merito a conseguenze di altro ordine del mancato assolvimento dell’obbligo in parola, quali la segnalazione al CDD per l’eventuale apertura di un procedimento disciplinare.

Allo stato attuale, il Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’avvocato inadempiente può "solo" compiere valutazioni indipendenti, in assenza della automaticità della cancellazione dopo il riscontro della violazione degli obblighi formativi.

Potrebbe ben procedere alla segnalazione delle condotte scorrette dell’iscritto al Consiglio di Disciplina, in ossequio all’art. 11 della Legge Professionale Forense n. 247/2012 – che prevede in capo all’avvocato l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell'interesse dei clienti e dell'amministrazione della giustizia – e all’art. 15 del Codice Deontologico, che sancisce il medesimo l’obbligo di curare costantemente la preparazione professionale, conservando e accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori di specializzazione e a quelli di attività prevalente.

Ancora, l’articolo 25, comma 10, del Regolamento C.N.F. n. 6/2014 prevede l’applicazione di sanzioni disciplinari in caso di accertamento della violazione del dovere di formazione e aggiornamento professionale e la mancata o infedele attestazione di adempimento dell’obbligo.

In altre parole, la violazione degli obblighi di formazione può, anche senza costituire fonte di cancellazione dall’albo, condurre alle sanzioni adeguate e proporzionate alla infrazione commessa, ma ciò è ad oggi strettamente dipendente dalla diligenza dei singoli C.O.A. nell’effettuare le adeguate verifiche, nell’individuare le violazioni e nel segnalarle ai C.D.D.

L’atteggiamento accennato ut supra, del professionista che si approcci in modo svogliato ed apatico alla formazione, pur non potendo - ad oggi - condurre alla cancellazione dall’albo, può essere oggetto di esame da parte dell’organo di disciplina, che è solito fondare la scelta di una sanzione più o meno aspra proprio sull’atteggiamento dell’incolpato – come correttamente evidenziato dal C.D.D. di Genova che, nella decisione n. 20 del 12 marzo 2019, ha posto alla base dell’aggravamento della sanzione disciplinare, proprio l’atteggiamento apatico dell’incolpato verso gli obblighi di formazione continua.

In attesa del decreto di attuazione del Ministero della Giustizia, non resta che riflettere sull’importanza della formazione – allontanandoci per un attimo dal timore di una sanzione disciplinare ed apprezzandone l'importanza e le conseguenze fruttuose sulla nostra professione – e chiederci: cosa ne direbbe, secoli dopo, Sir Francis Bacon?

                                                                                                                      Avv. Rosanna Ciavola