giovedì 8 febbraio 2024

Discriminazione di genere: il caso di una Compagnia aerea - Avv. Lucy Pappalardo

 

Sentenza Tribunale di Roma 

Spesso – erroneamente – si crede che, essendo ormai nel terzo millennio, certi argomenti siano obsoleti e superati.

Eppure ci ritroviamo ancora alle prese con discriminazioni piuttosto scomode e poco gradevoli.

Ci riferiamo alla sentenza del Tribunale di Roma, IV Sez. Lavoro, del 23 marzo 2022, nel procedimento n. 35684/2021 R.G., che alleghiamo.

Nello specifico il giudice ha accolto un ricorso proposto contro Italia Trasporto Aereo s.p.a., ex art. 38, D.Lgs. 198/2006, da due assistenti di volo, che avevano qualificato come “discriminazione per motivi di genere” la condotta della compagnia che, nell'ambito di un processo di recruiting, non avrebbe preso in considerazione la loro candidatura, semplicemente perché in stato di gravidanza.

La società patriarcale in cui ci troviamo, purtroppo ancora oggi, valuta in termini di disvalore l’apporto lavorativo della donna rispetto a quello dell’uomo – quasi come se appartenere a quello che allora, ed in parte ancora oggi, era considerato il cd. “sesso debole” attribuisse all’individuo una sorta di svantaggio in termini di valutazione delle prestazioni lavorative, una ridotta capacità lavorativa, un ostacolo, oserei dire in maniera azzardata, quasi un handicap dal punto di vista lavorativo (e non solo).

Come se ciò non bastasse, siamo di fronte ad una violazione di norma costituzionale e precisamente dell’art. 37, commi 1 e 2, Cost., il quale sancisce:  "La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Nel caso in esame, le assistenti di volo venivano escluse dall’eventuale selezione, semplicemente perché portavano in grembo un bambino.

Nessuna valutazione circa le capacità, le conoscenze, le pregresse esperienze lavorative delle due candidate.

Unico criterio di valutazione lo stato di gravidanza.

Ma davvero un’azienda può arrogarsi il  diritto di escludere delle candidate solo perché portano in grembo un bimbo? O di selezionare il personale sulla base delle scelte di vita? Sul serio diventare madri comporta un pregiudizio che limita un diritto fondamentale garantito della stessa Costituzione?

Quest’ultima, come riportato, riconosce a tutti i cittadini il diritto di eguaglianza, a prescindere dal sesso maschile o femminile.

Il comportamento della compagnia ha generato però una condizione piuttosto gravosa nei confronti della donna: questa dovrebbe così limitare la sua libertà di scelta di progetti familiari, dal momento che vengono prese in considerazione solo donne che non abbiano o non tentino di avere prole?

Ci troviamo davanti ad una situazione davvero paradossale: da un lato infatti la società e lo Stato incentivano le famiglie, anche mediante l’applicazione di bonus e agevolazioni fiscali in merito alla procreazione, che negli ultimi anni ha provocato una diminuzione, con conseguente drastico calo demografico – proprio a causa degli enormi costi sui consumi delle famiglie italiane, costrette ahimè a farsi i conti in tasca, perché spesso incapaci di arrivare a fine mese con una certa stabilità e serenità economica; dall’altro lato, invece, le aziende scoraggiano le donne, escludendo di default quelle che portano in grembo un bimbo o che hanno in programma di farne qualcuno.

Situazione veramente difficile da gestire, tanto più se ci si trova in un’era economica, come la nostra, nella quale la necessità di lavorare grava in capo ad entrambi i componenti del nucleo familiare, sia in termini economici che in termini di benessere e salute psico-fisica.

Inoltre è ben risaputo che la realizzazione professionale garantisce una maggior serenità e forza di spirito e tende a far in modo che l’individuo aspiri ad una maggior crescita personale e professionale – diritto che, in teoria, è garantito a tutti gli individui, ma che, in pratica, trova dei limiti non indifferenti persino nella società attuale che solo in apparenza si basa sul modernismo, sull’evoluzione, sul progresso, sull’innovazione.

Ma il caso che qui esaminiamo sottolinea una vera e propria discriminazione nei confronti di due aspiranti lavoratrici alle quali è stato addirittura negato il diritto di esser realmente valutate sulla base delle loro reali capacità.

I motivi potrebbero essere svariati: possibili lunghi periodi di assenza sul posto di lavoro per l’esercizio del diritto di maternità? Diritto di retribuzione nel periodo di maternità nel quale la lavoratrice madre che accudisce la prole, non svolge la sua attività lavorativa? Posizione scomoda della donna in stato di gravidanza nei confronti dell’azienda, la quale deve ugualmente erogare la retribuzione in quanto diritto legalmente riconosciuto alla lavoratrice madre?

Il motivo non è di rilevante interesse, ciò che occorre evidenziare è l’attuazione di una decisione assolutamente discriminatoria da parte dell’azienda in questione – discriminazione vietata con particolare attenzione da parte della nostra Costituzione, la quale così recita all’art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

A tal proposito il provvedimento del Tribunale di Roma assume rilevanza poiché reso nell'ambito del rito sommario, a carattere urgente, a contrasto degli atti discriminatori per motivi di genere, di cui al Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna.

Il Tribunale, tenendo conto delle statistiche ISTAT sulle nascite e del fatto che tra le 412 donne assunte dopo il processo di reclutamento nessuna era in gravidanza, ha concluso per la sussistenza di un comportamento discriminatorio, con conseguente condanna della compagnia al risarcimento del danno da perdita di chance alle ricorrenti (quantificato nel caso in esame in 15 mensilità).

Lo strumento risarcitorio non è certo sufficiente ad eliminare la dilagante discriminazione presente all’interno della nostra società, ma oltre a costituire un elemento deterrente – scoraggiante gli eventuali datori di lavoro ad applicare discriminazioni – restituisce anche dignità alle donne lavoratrici, quotidianamente costrette  a combattere con le visioni limitanti di una società patriarcale che vede nell’uomo l’unica fonte effettiva e concreta di lavoro, che tiene alta la distanza tra uomo e donna e che attribuisce a quest’ultima una falsa visione in termini negativi dell’appartenenza a tale categoria, come se fosse un soggetto capace di svolgere mansioni e funzioni limitate rispetto a quelle dell’uomo.

La società patriarcale è stata in grado di esercitare una netta distinzione tra “lavori maschili” e “lavori femminili”, senza tener in considerazione che in realtà apparteniamo tutti ad una stessa categoria di esseri umani e godiamo tutti in maniera indistinta degli stessi diritti e doveri.

                                               Avv. Lucy Pappalardo