mercoledì 6 aprile 2016

SHARING ECONOMY

SHARING ECONOMY: 

LA PROPOSTA DI LEGGE ITALIANA

di Avv. Antonella Matricardi
La sharing economy, ossia il consumo condiviso
L’idea di sharing economy, strettamente connessa a quella di resilienza come capacità di ottimizzare risorse ed energie nelle situazioni di crisi, realizza un approccio economico nuovo rispetto ai modelli tradizionali di scambio e redistribuzione, attraverso la natura pervasiva della rete mobile e ubiqua, declinata nella forza diffusiva dei social media.
Singoli individui diventano attori economici, creatori di un valore condivisibile in termini di beni, servizi e conoscenze, per proiettarne la spendibilità in un mercato dalle dimensioni ampie in cui prassi e piattaforme collaborative consentono strategie commerciali non eterodirette ma partecipative.
Le community, composte da utenti interessati a fornire una prestazione, da semplici visitatori o potenziali clienti, partecipano alle fasi non solo di creazione e distribuzione ma anche di promozione del prodotto, recensendolo quali precedenti utilizzatori o, incidendo con la frequenza delle visite sul sito, a determinare il prezzo delle inserzioni pubblicitarie.
Questa, più o meno, una visione iniziatica, quasi stereotipata del fenomeno.
In realtà, la sharing economy, con le sue più recenti articolazioni, si rivela essere sistema complesso e affascinante la cui definizione ormai non può ragionevolmente essere ingabbiata in semplicistiche formule promozionali o tantomeno da chiusure tout court demonizzanti.
Un’illusione, una chimera o veramente una risposta all’impasse dell’attuale crisi economica ?
Accanto ai numerosi sostenitori, la categoria degli scettici intravede nel consumo condiviso solo un estemporaneo motore alternativo all’economia tradizionale al quale corrispondono eccessivi entusiasmi e sopravvalutazioni mediatiche.
Incremento delle opportunità di business, capacità di creare nuova occupazione,  ma, nel lungo periodo, molto probabilmente un’iperflessibilità del lavoro priva di tutele e un andamento generale troppo condizionato dall’umoralità della rete, senza contare una già evidente emergenza in tema di privacy.
Queste, in estrema sintesi, alcune vulnerabilità che hanno motivato, non senza l’ambizione di poter governare un processo così esteso e inarrestabile, recentissime iniziative legislative, proprio a partire dal nostro paese.
Il 27 gennaio scorso è stata, infatti, presentata alla Camera del Deputati la proposta di legge n. 3564 e parallelamente depositato il 3 marzo in Senato il disegno di legge n. 2268.
Pur essendo testi sostanzialmente sovrapponibili, appaiono essenziali nel secondo gli aspetti della tutela consumieristica e della libertà di concorrenza, mentre dal primo emerge una maggiore attenzione del legislatore alla regolamentazione dell’attività di condivisione dei siti e portali web.
Il testo presentato alla Camera
L’Intergruppo Parlamentare sull’Innovazione ha diffuso in rete un’anticipazione della proposta di legge n. 3564, presentata ad iniziativa del deputato Veronica Tentori (PD), la cui pubblicazione sulla piattaforma Making Speeches Talk di Open Evidence consente all’utente dal 2 marzo al 31 maggio 2016 di apportare, in riferimento ad ogni singola disposizione, osservazioni e commenti.
Si tratta di un testo composto da 12 articoli che preliminarmente introduce il concetto di appartenenza agli operatori stessi del valore generato da beni e servizi messi a disposizione dei fruitori: il gestore -che agisce solo come abilitatore della piattaforma- non è datore di lavoro, essendo concettualmente escluso l’elemento della subordinazione.
Se il fine ultimo del legislatore è quello di garantire trasparenza, leale concorrenza, equità fiscale e tutela dei consumatori, in tale ottica dovrebbe porsi l’istituzione del Registro Elettronico Nazionale presso l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato.  All’AGCM è attribuita la funzione di regolazione e vigilanza sulle attività dei portali con il compito di segnalare, nella relazione annuale alle Camere, eventuali ostacoli normativi/amministrativi alla diffusione dell’economia di condivisione, insieme a possibili correttivi e  sempre in sintonia con le normative europee.
Centrale  appare la previsione del documento di politica aziendale che, predisposto dai gestori delle piattaforme e approvato dall’AGCM, costituisce adempimento vincolante  per l’iscrizione al Registro Nazionale. Fra le condizioni contrattuali sottoscritte dagli utenti non potranno essere inserite riserve dirette a determinare uno squilibrio nei rapporti a favore dell’abilitatore. Concessioni di esclusiva, accettazione di tariffe obbligatorie, ingerenze o controlli nell’esecuzione delle prestazioni e cessioni gratuite non revocabili dei propri diritti d’autore sono clausole espressamente indicate come nulle, anche se accettate dai condividenti.
Quali garanzie obbligatoriamente previste nel documento, sono imposti i pagamenti in via elettronica per le transazioni economiche e richieste le registrazioni univoche di tutti gli utenti sul sito, nonché le informazioni circa le coperture assicurative stipulate.
E’ prevista un’imposizione fiscale flessibile e diversificata in cui il reddito da attività di economia della condivisione non professionale dovrà essere indicato in un’apposita sezione della dichiarazione dei redditi, richiedendo, se inferiore alla soglia di 10.000 euro, l’applicazione di un’imposta pari al 10%, mentre i redditi superiori dovranno essere cumulati con i redditi da lavoro dipendente o autonomo, quindi assoggettati all’aliquota corrispondente.
Il testo si conclude con l’obbligo di predisporre strumenti per la verifica, modifica e rapida eliminazione dei dati utenti in tema di tutela della riservatezza e con la previsione di misure sanzionatorie pecuniarie e sospensive dell’attività per i portali non iscritti al Registro Nazionale o privi del documento di policy, ricorrendo l’infrazione anche nei casi in cui gli stessi non si siano adeguati, entro i termini indicati, alle diffide dell’Authority.
Il testo depositato in Senato       
Come nella bozza di legge presentata alla Camera, l’articolato ad iniziativa parlamentare del senatore Mauro Del Barba (PD) circoscrive l’elemento caratterizzante della sharing economy al fatto “che le iniziative di condivisione non siano strettamente legate a una logica di profitto e consumo ma a uno schema di ottimizzazione e di risparmio con una ovvia attenzione ai paradigmi di innovazione sociali quali, ad esempio, la sostenibilità ambientale, lo scambio culturale, la ricerca scientifica, ottenendo così un risparmio di spesa ed eventualmente un reddito“.
Vengono pertanto espressamente escluse le attività svolte con modalità operative imprenditoriali, poichè la condivisione del bene o del servizio non deve essere svolta professionalmente. Al fine di tutelare la concorrenza e impedire un utilizzo elusivo della disciplina speciale, i soggetti che esercitano un’attività organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi dovranno rimanere assoggettati alle norme civilistiche in materia di impresa.
Il testo è composto da 9 articoli; un primo blocco di norme conferma gli obblighi per i portali di condivisione nella tracciabilità dei pagamenti, nei meccanismi di controllo dei servizi offerti, nelle coperture assicurative e nella tutela della riservatezza dei dati personali e delle informazioni acquisite da utilizzatori e fruitori nell’attività di condivisione.
Di rimando, la mancata iscrizione nel Registro Nazionale on line o il mandato adeguamento all’intimazione dell’Authority conferma le sanzioni pecuniarie e la sospensione dell’attività fino alla realizzazione degli adempimenti richiesti.
Le disposizioni non parlano espressamente di documento di politica aziendale ma di condizioni generali di contratto utilizzate che il gestore deve comunicare all’AGCM, escludendo sempre l’inserimento di clausole di esclusiva o indicanti tariffe predeterminate.
L’operatore dovrà svolgere la propria attività nel rispetto degli standard minimi di sicurezza ed igiene che verranno dettagliati con regolamento ministeriale, mentre è prevista l’applicazione dell’art. 2043 c.c., a tutela del consumatore, laddove i danni eventualmente subiti non siano altrimenti risarcibili, stante l’acclarata esclusione della risarcibilità per quella tipologia di pregiudizio che può derivare dalle prestazioni tra privati senza previsione di un corrispettivo.
In tema di tutela della concorrenza il disegno di legge distingue tra attività sottoposte a specifici regimi autorizzatori e attività apparentemente non economiche che, commercializzando prodotti e servizi on line senza essere soggette  a tassazione od obblighi igienico-sanitari, determinano situazioni di concorrenza sleale. Per le prime viene quindi previsto che, con regolamento ministeriale, siano indicati i limiti massimi temporali e di reddito consentiti nell’anno solare per l’attività di condivisione.
Il legislatore vuole così riconoscere la coesistenza di approcci economici diversi, comunque funzionali a soddisfare domande differenti, al fine di evitare che, nei confronti di operatori soggetti a particolari regimi autorizzatori, non prevalgano operatori concorrenti in grado di agire senza alcuna regolamentazione.  Sono escluse, pertanto, dall’utilizzazione o fruizione in forma condivisa, quelle attività intellettuali il cui esercizio sia subordinato all’iscrizione in appositi albi o elenchi.
La fiscalità sembra rimanere anche nel testo presentato in Senato, secondo alcuni commentatori, un nodo irrisolto o, perlomeno, semplicisticamente affrontato. Viene disposto, infatti, che i proventi derivanti dalla condivisione, se inferiori nell’anno solare alla somma di 10.000 euro, non debbano concorrere alla formazione del reddito del condividente e che, fino a tale limite, siano soggetti all’imposta sostitutiva del 10% con la condizione di sostituti d’imposta assegnata ai gestori. Naturalmente, a tal fine, s’intenderanno cumulate tra loro, eventuali plurime attività di condivisione.
I limiti della proposta italiana  
La Commissione Europea che ha annunciato la Digital Single Market Strategy, ossia lo sviluppo di un’agenda europea sull’economia collaborativa, dovrebbe concludere entro pochi mesi ormai l’elaborazione delle linee guida. Nel febbraio scorso i rappresentanti dell’economia industriale europea della collaborazione ( praticamente le 47 aziende leaders della s.e.) hanno rivolto al primo ministro olandese, Mark Rutte, presidente di turno della UE, una lettera aperta per sollecitare una strategia unica, temendo possibili freni burocratico-legislativi nei paesi membri allo sviluppo dei nuovi modelli di mercato.
A prescindere dal sotteso intento di quello che è sembrato un vero e proprio appello alla competizione da parte delle multinazionali-sharing, la proposta italiana è nel frattempo giunta per prima, suscitando negli addetti ai lavori apprezzamenti per il tempismo ma qualche perplessità nel merito.  Entrambe le bozze sembrano infatti troppo generiche e difficilmente applicabili a realtà dalle diverse strutture e dimensioni, pur comprese nello stesso complesso sistema.
Nella distinzione, ad esempio, tra rental economy (in cui si affermano forme di business vero e proprio) e la semplice idea di condivisione di beni e servizi, il modello fiscale suggerito rischia di creare uno squilibrio competitivo a scapito dei cd. servizi on line decentralizzati. Senza contare poi, l’attuale indisponibilità di uno specifico prodotto offerto sul mercato per le obbligatorie coperture assicurative e l’assenza di disposizioni in tema di previdenza.
L’inserimento di oneri e vincoli per i gestori sembra, peraltro, incompatibile con le dinamiche di un’economia veloce, di quasi impossibile attuazione per quelle nuove piattaforme operate direttamente dagli utenti.
Il percorso parlamentare della proposta italiana è, tuttavia, appena iniziato, necessariamente soggetto ad una fase d’implementazione nell’ambito della quale occorrerà tener conto di un contesto in continua evoluzione e che la natura del lavoro sta cambiando, come sta cambiando la natura dell’impresa.
C’è sharing e sharing, ricorda Daniele Viotti, europarlamentare che nel giugno 2015 ha presentato un progetto pilota per il quale sono stati inseriti due milioni e mezzo di euro nel bilancio della UE e che vuole sostenere le realtà di dimensioni minori rispetto alle grandi piattaforme dalle quali le prime rischiano di essere oscurate.
C’è sharing e sharing : la nuova economia non punta solo a logiche meramente commerciali ma è soprattutto sociale, nella collaborazione tra persone, nella condivisione in rete di spazi, esperienze e talenti.
E’ un grave errore, una sottovalutazione imperdonabile guardare all’economia collaborativa come ad un’esperienza che risenta di confini, diversamente regolata a seconda delle singole legislazioni nazionali. Per questo, continua Viotti, sarebbe interessante che fosse l’Unione a fare il lavoro di raccordo tra le diverse realtà e a dare risposte alle questioni aperte, perchè se l’Europa è intenzionata a investire sul settore, ritenendolo un tema sempre più centrale, l’assenza di un confine chiaro dei fenomeni di sharing economy rischia di oscurare l’esistenza delle esperienze minori, cannibalizzate mediaticamente dalle grandi piattaforme.




venerdì 1 aprile 2016

ANTITRUST E CNF: CRONACA DI UNA SANZIONE ANNUNCIATA


ANTITRUST E CNF: CRONACA DI UNA SANZIONE ANNUNCIATA

di Avv. Antonella Matricardi
Com’è ormai noto, con la delibera del 10/02/16 (Bollettino n.5 del 29/02/16, I748B – Condotte restrittive del CNF-Inottemperanza, n. 25868) l’Agcm ha comminato al Consiglio Nazionale Forense una sanzione di 912.536,40 euro, per non aver posto termine all’infrazione dell’art. 101, Trattato sul funzionamento dell’Unione, con ciò integrando la violazione dell’art. 15, comma 1 e 2, L. n. 287/90 per inottemperanza al provvedimento n. 25154 del 22/10/14.
L’Authority aveva infatti accertato, da parte della massima istituzione forense,  il compimento di un’infrazione unica e continuata, restrittiva della concorrenza, consistente nell’adozione di due decisioni (la circolare n. 22/06 e il parere n. 48/12) […] volte a limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, con evidente svantaggio per i consumatori finali.
Nel lasso di tempo trascorso, il CNF avrebbe dovuto adoperarsi per rimuovere cause ed effetti della violazione, anche provvedendo, entro il 28/02/15, al deposito di una relazione illustrativa circa la condotta riparativa concretamente assunta, non senza avere dato, di tali misure, adeguata informazione agli iscritti.
Nel gennaio 2015, invece, impugnando il provvedimento sanzionatorio, ne otteneva solo l’annullamento parziale. Il Tar Lazio infatti con la sentenza n. 8778 del 17/06/15 confermava il giudizio Agcm di anticoncorrenzialità in relazione al solo parere n. 48/12, sostanzialmente limitante le possibili forme di utilizzo degli strumenti e spazi informatici per veicolare la pubblicità professionale.
La cronologia impietosa di impugnazioni anche davanti al Consiglio di Stato, di interpretazioni difensive e possibili misure riparative, registra nel maggio 2015 l’apertura del giudizio di ottemperanza, nell’ambito del quale nemmeno un’interpretazione autentica, in forma di stigmatizzazione del divieto di accaparramento di clientela, appariva sufficiente a correggere del parere contestato la valenza restrittiva. Come comportamento analogo a quello oggetto dell’infrazione, non poteva non emergere l’inadeguatezza dei canoni deontologici relativi al dovere di corretta informazione con l’assurda, arcaica distinzione tra siti web con dominio proprio e senza reindirizzamento.
Quando, con l’apertura alla libertà dei mezzi comunicativi, approvata in via definitiva il 22/01/16, la versione dell’art. 35 C.D. viene finalmente modificata, l’ennesimo epilogo sanzionatorio  è comunque imminente, integrandosi come tassello nel preoccupante mosaico delle recenti, discutibili iniziative e decisioni istituzionali.     
   
Il fascino discreto dell’azione risarcitoria.
La società segnalante, nella fase di istruttoria per la delibera n. 25154/14, aveva più volte evidenziato come la creazione della piattaforma on line [AmicaCard] avesse richiesto elevati investimenti e come il parere censurato avesse determinato una perdita economica per i recessi degli avvocati che si erano iscritti prima e per le mancate iscrizioni successive.
Da parte sua, il CNF aveva insistito sulla natura non vincolante del parere incriminato, poichè espresso in risposta al quesito di un singolo COA, quindi caratterizzato da una circoscritta diffusione.   Era, invece, emerso che alcuni Ordini territoriali, in seguito alla conoscenza di tale orientamento, avevano invitato i propri iscritti a dissociarsi dal circuito curato dalla segnalante e che, per un lungo periodo di tempo, la corrispondenza, sul motore di ricerca Google, tra le parole chiave richiamanti la denominazione della piattaforma e i primi risultati, aveva rilevato prevalentemente contenuti riguardanti l’illegittimità del suo utilizzo.
Obiettivamente, non è marginale che il CNF applichi nell’esercizio delle sue funzioni -giurisdizionale e regolatoria-, disposizioni deontologiche anche inevitabilmente incidenti sul comportamento economico degli iscritti, obbligati al rispetto di tali canoni e principi. Nemmeno sarebbe concepibile che, pronunciandosi sugli illeciti disciplinari, possa discostarsi dagli orientamenti preventivamente espressi in materia. Per ovvi motivi, inoltre, la rilevazione da parte del CNF di un comportamento violativo, che sia in forma di provvedimento o di semplice parere, sempre e comunque, inibirà l’avvocato dal proseguire quel determinato comportamento o dall’ adottarlo.
E’ evidente come, anche in questo caso, l’accertamento Antitrust dell’intesa restrittiva, primo e secondo round, non possa non aprire (o meglio, spalancare) un ampio scenario in campo civilistico, come consentito dall’art. 33, comma 2, L. n. 287/90. Ed è quantomeno opportuno che organismi di rappresentanza professionale (assimilabili alle associazioni di imprese, secondo quanto concluso dall’Agcm) decidano di assorbire fin d’ora, soprattutto culturalmente, le novità della Direttiva 2014/104/UE [1], già condizionanti gli orientamenti dei giudici nazionali, soprattutto in tema di “prova privilegiata” dell’accertamento antitrust e dei criteri di indennizzo per una tutela effettiva dei danni da condotta anticoncorrenziale.    
    
Infine, in ordine sparso: la Grande Bellezza, ossia la deontologia unidirezionale.
In effetti, per l’organo di rappresentanza esclusiva a livello istituzionale dell’avvocatura, i segni di avverse congiunture astrali annoverano recenti transiti veramente degni di nota. In ordine sparso, si registrano in una sorta di accanimento terapeutico:
  •  l’afflizione di circa 912.000 euro che segue alla precedente, pur ridotta a quasi 514.000 euro,
  • l’avvio di una dispendiosa iniziativa editoriale, tanto per cominciare, inconciliabile con il ruolo di organo giurisdizionale del CNF,
  • la situazione di stallo di un regolamento elettorale COA, illegittimo e parzialmente annullato dai giudici amministrativi [2],
  • l’autonoma attribuzione di emolumenti e altre indennità di carica per funzioni storicamente nate per spirito di servizio.

La deontologia unidirezionale tollera con malcelata insofferenza la blasfema bizzarria di quei comuni mortali che con insistenza chiedono chi dovrà accollarsi onerose spade di Damocle: non è un caso che, in particolare  per le recenti autoliquidazioni, anche voci ordinistiche  stiano invocando la ragionevolezza di una revoca o di una sospensione.
Tutto questo e altro, mentre quel sacrale rispetto delle regole appare dirottato per selezionare ossessivamente gli strumenti della moderna comunicazione col rischio di reprimerne le enormi potenzialità. Strumenti che, per esperienza, sfuggono a misure di rigido governo, incuranti di ogni forma di censura, al massimo condizionati solo da filtri di continenza con i quali possono sufficientemente interagire i principi deontologici della dignità professionale, del decoro, della lealtà, purchè non apoditticamente intesi.
La pubblicità professionale è solo un singolo, specifico aspetto di uno strutturato universo di informazioni e formule comunicative, di fronte al quale l’etica ideale di comportamento non sarà più tale, se continuerà ad inibire immediatezza e contestualità dell’interattività in rete col richiamo a pretese espressive del tutto esclusive ed elitarie.
Quanto ad alcuni effetti collaterali, forse necessari, della simultaneità e al paventato, estremo rimedio delle segnalazioni disciplinari interne, in genere e per chiunque, vale la connessione tra rispetto invocato e coerenza: scrisse nel suo primo romanzo Ignazio Silone che per capir bene le parole sacre bisogna trovarsi in stato d’innocenza e che anche allora però esse possono rimanere misteriose.  [3]


[1] La Direttiva 2014/104/UE è entrata in vigore il 25/12/15 ed è in attesa di recepimento in ogni singolo Stato Membro entro il 27/12/16

[3] Ignazio Silone, Una manciata di more, 1952, Ed. Mondadori

giovedì 11 febbraio 2016

NO CANONE RAI PER STUDI E UFFICI

La modulistica ufficiale

Il canone RAI è in realtà un tributo (così è stato ricostruito dalla Corte Costituzionale, per salvarlo) previsto dal R.D.L. 21/02/1938, n. 246 - Disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni – modificato dalla recente legge di stabilità in questi termini.

1. Dell'abbonamento alle radioaudizioni.
Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto.
La presenza di un impianto aereo atto alla captazione o trasmissione di onde elettriche o di un dispositivo idoneo a sostituire l'impianto aereo, ovvero di linee interne per il funzionamento di apparecchi radioelettrici, fa presumere la detenzione o l'utenza di un apparecchio radioricevente. La detenzione di un apparecchio si presume altresì nel caso in cui esista un'utenza per la fornitura di energia elettrica nel luogo in cui un soggetto ha la sua residenza anagrafica. Allo scopo di superare le presunzioni di cui ai precedenti periodi, a decorrere dall'anno 2016 è ammessa esclusivamente una dichiarazione rilasciata ai sensi del testo unico ..... (si tratta della c.d. dichiarazione sostitutiva), la cui mendacia comporta gli effetti, anche penali, di cui all'articolo 76 del medesimo testo unico. Tale dichiarazione è presentata all'Agenzia delle entrate - Direzione provinciale I di Torino - Ufficio territoriale di Torino I - Sportello S.A.T., con le modalità definite con provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate, e ha validità per l'anno in cui è stata presentata.
Il canone di abbonamento è, in ogni caso, dovuto una sola volta in relazione agli apparecchi di cui al primo comma detenuti, nei luoghi adibiti a propria residenza o dimora, dallo stesso soggetto e dai soggetti appartenenti alla stessa famiglia anagrafica...


Da questo deriva che nessun canone è dovuto, e nessuna dichiarazione deve essere presentata, dai titolari di studi professionali, uffici e negozi in genere, che non abbiano la residenza anagrafica in quell’immobile.


Utilità pratiche fornite da deontologus
Chi ha compiuto i 75 anni e rientra nei limiti di reddito può essere esonerato compilando questo modulo e inviandolo all’Agenzia delle Entrate (l’indirizzo è nelle istruzioni).
LINK ESENZIONE CANONE RAI AGENZIA ENTRATE
Chi dovesse ricevere la bolletta maggiorata del canone, malgrado l’immobile sia adibito esclusivamente a studio professionale, negozio o ufficio, potrà utilizzare questo fac simile.
Dichiarazione sostitutiva di certificazione (art. 46 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445)
1) Agenzia delle Entrate, ufficio Torino 1, SAT Sportello Abbonamento TV - C. Postale n. 22, 10121 Torino
2) Società dell’Energia Elettrica ………………
Oggetto: autocertificazione per esenzione dal pagamento del canone Rai
La/Il sottoscritta/o ……………… residente in ………………, (cap) ………………, ………………, consapevole che chiunque rilascia dichiarazioni mendaci è punito ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia, ai sensi e per gli effetti dell’art. 46 D.P.R. n. 445/2000
DICHIARA
di non avere il possesso di alcuna televisione nella casa fornita di utenza elettrica di cui al contratto n. ……………… stipulato in data ……………… con la società ……………… relativo all’immobile sito in ……………… via ……………… (cap) ……………… ………………
oppure:
che l’utenza elettrica di cui al contratto n. ……………… stipulato in data ……………… con la società ……………… relativo all’immobile sito in ……………… via ……………… (cap) ……………… (prov) ……………… si riferisce a
[scegliere]:
– immobile adibito a seconda casa, senza residenza.
– ufficio, studio professionale, negozio, senza residenza e senza apparecchi televisivi.
– immobile dato in locazione al sig. ...
e che, pertanto, non è dovuto alcun canone Rai.
[eventualmente aggiungere]: il sottoscritto è già titolare di abbonamento collegato al contratto n. ……………… stipulato in data ……………… con la società elettrica ……………… relativo all’immobile sito in ……………… via ……………… (cap) ……………… ………………
(luogo, data, firma e fotocopia del documento)

lunedì 1 febbraio 2016

Elezioni forensi: passate in giudicato le sentenze del Tar Lazio


Tra le sentenze del 20/05/15 (depositate il 13/06/15) con le quali il Tar Lazio ha parzialmente annullato il Regolamento sulle modalità di elezione dei componenti dei Consigli degli Ordini circondariali forensi,   la n. 08332/2015 (n. 15617/2014 REG.RIC.) e la n. 08334/2015 (n. 15512/2014 REG.RIC.) sono passate in giudicato per decorrenza del termine lungo senza essere state appellate.

La sintesi comune ai tre provvedimenti riguarda l’illegittimità degli artt. 7 e 9 del D.M. n. 170/2014 per contrarietà alla fonte primaria e il Consiglio di Stato, davanti al quale pende l’impugnazione della n.08333/2015, dovrebbe confermare l’orientamento già espresso con l’ordinanza n. 736/2015 del 18 febbraio scorso, ora anche tenendo conto del passaggio in giudicato delle sentenze “gemelle”.

Dunque, è acclarato: l’utilizzo del meccanismo di candidatura e di voto applicato, con il quale sostanzialmente l’elettore ha potuto esprimere un numero di preferenze superiori a quelle consentite dalla legge, bypassando l’effettivo rispetto delle minoranze e dell’equilibrio di genere, ha falsato il corretto svolgimento del procedimento elettorale, automaticamente creando un pregiudizio all’esercizio del diritto di elettorato attivo e passivo.
Criticità del sistema, possibili soluzioni e sinergie da recuperare erano state da più parti anticipate [1]    fin dall’emanazione del regolamento e un certo immobilismo, seguito al fermo immagine delle sentenze ora definitive, stava delle stesse quasi sbiadendo chiarezza e perentorietà.
A breve, le determinazioni di un monsieur Godot ministeriale finora atteso invano (“oggi non verrà, ma verrà domani”) dovranno colmare il vuoto applicativo creatosi: urge, senza ulteriori ritardi, un intervento di modifica o rielaborazione della normativa di dettaglio, perchè anche le numerose impugnazioni degli esiti elettorali non vengano più rinviate a illuminazioni future, ma finalmente decise secondo le indicazioni dei Giudici amministrativi.
Ma dove eravamo rimasti ?
A completamento del quadro attuale che riflette, nel complesso di un panorama caotico, tanto per cominciare la realtà dei Consigli in prorogatio sine die, eravamo anche rimasti a Ordini in cui si sono insediati Consigli eletti in applicazione di norme illegittime.
E’ più che mai evidente come la scelta di procedere comunque con le operazioni di voto nella concitata fase di riattivazione del regolamento dopo l’iniziale sospensione, ponga ora contraddittoriamente i Consigli eletti con liste totalitarie di fronte alle proprie funzioni. In tema di continuità professionale, di crediti formativi, di riscossione delle quote annuali ai COA e quant’altro richiede agli iscritti il nuovo ordinamento professionale, dovranno vigilare, esigere il rispetto di una legge che essi per primi, sostanzialmente, non hanno correttamente applicato.

Vecchi e incrollabili equilibri, tiepide convinzioni sparse, gli Ordini inguaribilmente consenzienti sono apparsi, anche in questa occasione, come un nutrito limbo di distratte acquiescenze, in cui nulla, in tema, è stato mai pubblicamente anche solo discusso; forse solo per semplice e diffuso disinteresse o forse perchè il dissenso che invoca alternanza e pluralismo democratico effettivamente, anche per alcuni pacati elettori, può avere una connotazione troppo rivoluzionaria e poco rassicurante. L’assenza di reclami tempestivi dovrebbe aver cristallizzato l’intangibilità dei risultati, anche se la peculiarità di queste elezioni (le prime dall’entrata in vigore delle nuove regole primarie e attuative) consente qualche perplessità in ordine al momento di decorrenza dei termini che l’art. 28, comma 12, L. n. 247/12 fissa chiaramente alla proclamazione degli eletti, ma che, secondo alcuni, potrebbe riguardare il passaggio in giudicato delle sentenze per l’illegittimità originaria delle disposizioni annullate.

In conclusione
La platea forense, a parte reattive correnti e singole voci critiche, ha metabolizzato per mesi evento ed effetti collaterali, contribuendo a sminuirne la gravità  con una percezione rassegnata, quasi annoiata ed erroneamente superiore, viziata dalla convinzione che l’incidenza nel quotidiano di problemi pratici non sia diretta conseguenza di rappresentanze e vertici sempre più incuranti dei pericoli dell’autodelegittimazione.
La definitività di queste sentenze e la tenacia di chi ci ha creduto fin dall’inizio compensano quell’insostenibile leggerezza delle istituzioni forensi di ogni tipo e livello, che, ormai, quando non ingenera diffidenza, sconfina nell’autolesionistico disinteresse delle assemblee per i temi cruciali della vita forense.
La sensazione è che, comunque, alcuni Consigli irregolarmente eletti  continueranno ad evitare di affrontare l’impasse del Regolamento, nemmeno sfiorati, anche dopo il passaggio in giudicato delle sentenze, dall’ipotesi delle dimissioni in blocco.
Nel caso venisse non isolatamente compiuto, sarebbe un gesto dalla forte valenza politica, ispirato da quello spirito di servizio che non vuole confondersi con il privilegio.      Parte dell’elettorato potrebbe paventare conseguenze destabilizzanti, ma di un simile gesto altre fazioni apprezzerebbero la correttezza.
Allora la speranza è che un certo potere istituzionale rifletta e scelga di non adattarsi più a quel fine, che quando così spudoratamente giustifica i mezzi, produce un enorme e incolmabile danno di immagine esterno e interno.
Danno che dai vertici territoriali illegittimamente costituiti, in termini di credibilità e consenso sociale, si estende all’intera categoria.

[1] fra gli approfondimenti in materia si segnalano in particolare “Le tortuose elezioni del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati”, Antonino Ciavola, La Previdenza Forense 1/2015, pag. 56,http://www.cassaforense.it/media/2967/la-prev-forense-n1-2015-singole.pdf ed “Elezioni forensi: annullato il regolamento, ora che succede ?” Altalex, 23 giugno 2015, nota di Antonino Ciavola


© RIPRODUZIONE RISERVATA
Avv. Antonella Matricardi

lunedì 25 gennaio 2016

Crisi degli avvocati, lasciano la toga in ottomila (rewind)

 
Da alcuni giorni circola in rete un articolo con questo stesso titolo, lanciato da AGI (Agenzia Giornalistica Italiana) e ripreso da tanti altri siti senza modifiche, includendo qualche inesattezza.
Proviamo – umilmente – a correggerlo: i miei chiarimenti sono riportati in grassetto.
Un numero sconfortante quello degli avvocati in fuga, se confrontato con il totale di circa 240mila professionisti del foro contro i 50mila della Francia. Indicativo di quello che sembra a tutti gli effetti un declino della professione. In realtà gli avvocati francesi sono circa 62.000, quindi un quarto degli italiani; un divario comunque ingiustificato (i due Stati hanno uguale popolazione e cultura giuridica).
In Italia nel 2015 sono almeno ottomila quelli che hanno scelto di dismettere la toga. Come? Non rinnovando l’iscrizione alla cassa forense, che a seconda del titolo – da praticante non abilitato fino ai cassazionisti – varia dai 70 ai 205 euro annui. Qui si confonde l’iscrizione alla Cassa con l’iscrizione all’albo. I costi indicati riguardano la tassa per l’albo, mentre la vera causa delle cancellazioni è l’iscrizione obbligatoria alla Cassa che costa non meno di 800 euro l’anno a contribuzione ridotta e oltre 3.600 l’anno a contribuzione piena.
«L’iscrizione è diventata obbligatoria ufficialmente dal primo gennaio 2014» spiega all’Agi Nunzio Luciano, presidente della Cassa forense. «Negli 8mila avvocati in fuga sono comprese molte persone che hanno sempre avuto un altro impiego principale – il piu’ delle volte nella pubblica amministrazione – e che magari esercitavano solo per hobby, resta il fatto che la cifra è elevatissima». L’iscrizione alla Cassa è automatica, non solo obbligatoria, e decorre dal 2013. Chi aveva un altro impiego era incompatibile anche con la vecchia legge, e aveva il divieto di iscrizione e di esercizio, anche per hobby.
Il futuro è tutt’altro che roseo, perché ad oggi sono oltre 80mila gli avvocati che hanno un reddito da fame. «E’ molto probabile che una parte di loro abbandonerà la professione, continua Luciano». Tra i più colpiti i giovani e le donne che percepiscono un reddito dimezzato rispetto ai loro colleghi maschi. Ma iniziano a soffrire anche le fasce intermedie, specie se non specializzate. Non è la specializzazione a portare clienti, ma certi flussi non trasparenti (enti pubblici, agenzie privatizzate, gestori di pubblici servizi) e talvolta clientelari.
Ai tempi della crisi trascinare qualcuno in tribunale è diventato un lusso: «il contenzioso ha costi altissimi, chi è in difficoltà non può permettersi una spesa simile» spiega ancora il presidente della Cassa forense. «L’avvocato d’ufficio viene pagato pochissimo. Per una causa delicata come quella di un divorzio con figli può percepire anche 100 euro». Qui si confonde la difesa d’ufficio del penale con il patrocinio a spese dello Stato nel civile (il divorzio è una causa civile). E non si spiega che l’avvocato d’ufficio o con gratuito patrocinio dovrebbe essere uno che rende un servizio sociale, non un mestierante che vive di questo.
Prima di essere pagati, poi, possono trascorrere anche anni: «Stiamo cercando di introdurre norme per abbattere i tempi di pagamento per chi difende i soggetti meno abbienti» spiega. Per Luciano i «veri monopolisti sono le grandi assicurazioni che non retribuiscono il legale in base a parametri di minimo perché non esistono più. La retribuzione e’ ridotta all’osso a scapito della qualità». Qui la frase è stata probabilmente mal sintetizzata, il pensiero era che l’avvocatura è un soggetto debole rispetto a certi poteri forti, come quello assicurativo. Certo è che gli avvocati fiduciari di compagnie assicurative sono pochissimi e restano comunque professionalmente fortunati.
A chi propone il numero chiuso per arginare l’enorme offerta, Nunzio Luciano risponde che ormai é tardi. «Dai dati in mio possesso risulta che gli iscritti alle facoltà di giurisprudenza sono sempre meno. Era necessario agire prima e introdurre il numero programmato nel secondo anno accademico per evitare il boom e permettere a persone meritevoli di trovare comunque un’altra strada senza restare fuori dal mercato». Era anche necessario verificare l’effettiva pratica forense e realizzare un esame di Stato semplice, meritocratico e dignitoso, mentre quello attuale lede i diritti umani dei giovani praticanti e non consente alcuna selezione per merito.