domenica 29 giugno 2025

Quando il wellness costa la libertà di scelta - Ci vuole un contratto bestiale?



Ci vuole un fisico bestiale
Perché siam sempre ad un incrocio
O sinistra, destra, oppure dritto
Il fatto è che è sempre un rischio

Ci vuole un attimo di pace, sai, di pace, sai
Di fare quello che ci piace, sai, mi piace, sai

E come dicono i proverbi
E lo dice anche mio zio
Mente sana in corpo sano
E adesso son convinto anch'io

 

…così cantava Luca Carboni, in uno dei suoi pezzi più famosi e rimasto nella storia della musica.

Mentre meditavo su questo articolo, appena letta la notizia della ingente sanzione dell’A.G.C.M. alla Virgin Active, mi veniva in mente proprio il motivetto ci vuole un fisico bestiale, pensando però al discutibile contratto che ha unito me ed altre centinaia di migliaia di sportivi ad uno dei villaggi fitness più famosi e più ricercati d’Italia: un contratto incompreso dai più, messo a disposizione ed attenzionato troppo tardi dai consumatori – guidati a sottoscriverlo mediante l’apposizione di una firma nella pagina bianca di un tablet, dopo esser stati affascinati dalla bellezza della struttura, dalla simpatia e dalla disponibilità del personale, da quell’aria di infinita serenità che, diciamocelo, solo Virgin Active sa donare.

L’incantesimo è potenzialmente destinato a durare per sempre, o meglio finchè comprovati problemi economici, malattia, gravidanza o trasferimento in città sprovvista di sede V.A.I. non ci separino. Non sono ammessi ripensamenti.

Abbandonando qualsivoglia ironia, è opportuno ricordare che, mentre il consumatore è intento ad investire il proprio tempo ed il proprio denaro nella più salutare delle attività – lo sport – non dovrebbe mai dimenticare i propri diritti, sanciti a chiare lettere dal Decreto Legislativo del 6 settembre 2005, n. 206, che ha recepito la Direttiva n. 2005/29/CE in materia del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005 relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno.

Le norme ivi contenute sono reiteratamente state violate da Virgin Active Italia che, con provvedimento del 13 giugno 2025 è stata condannata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ad una sanzione amministrativa pecuniaria di 3.000.000 di euro per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette ai sensi degli artt. 20, 21, 22, 24, 25, 26, lettera f), e 65-bis del Codice del Consumo.

A seguito di plurime di segnalazioni dei consumatori, l’A.G.C.M. ha difatti avviato un procedimento a carico della nota società, relativo alle modalità di sottoscrizione del contratto di abbonamento ai servizi fitness e wellness […] non idonee a fornire adeguate informazioni al consumatore sui termini e le condizioni di adesione, di rinnovo, di disdetta e di recesso anticipato da tale contratto […], all’assenza di qualsivoglia comunicazione preventiva, in prossimità della scadenza dell’abbonamento, finalizzata a ricordare il rinnovo automatico e il termine entro cui è possibile fare disdetta, alla mancata comunicazione delle variazioni di prezzo dell’abbonamento e, in particolare, alla presenza di ostacoli all’esercizio della facoltà di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta.

Per quanto riguarda il primo punto, l’Autorità Garante ha riscontrato che, al momento dell’iscrizione, in assenza di richiesta espressa del cliente di conoscere le Condizioni di Abbonamento a cui si sta vincolando, la stipula del contratto avveniva con la mera apposizione di una firma digitale in un tablet,  visionando una mera schermata bianca.

In altre parole, come evidenziato da uno dei tanti consumatori rivoltisi all’A.G.C.M., la sottoscrizione avviene al buio, e quando ho chiesto spiegazioni mi è stato risposto “le firme servono solo per l’accettazione del contratto, tanto poi eventualmente puoi dare disdetta/esercitare il recesso” (segnalazione prot. 0013171 del 21 febbraio 2025).

Volendo sopperire all’anzidetta carenza informativa con la facoltà, sempre presente in capo al cliente, di consultare il contratto nella propria applicazione della V.A.I., o chiedendone copia stampata al desk, si presenta comunque una grande problematica quando, terminato l’incantesimo su cui si ironizzava sopra, il consumatore desideri per davvero dare disdetta o esercitare il recesso – opzioni non consentite con la facilità originariamente prospettata dal personale di accoglienza del club.

L’A.G.C.M. ha riscontrato il rigetto, da parte di V.A.I. di varie richieste di risoluzione del contratto di abbonamento per impossibilità sopravvenuta, motivate da quelle causali che le stesse condizioni di abbonamento qualificano come impedimenti oggettivi che consentono lo scioglimento del vincolo contrattuale, quali ragioni di salute, trasferimenti in altre città o perdita del lavoro. In questi casi V.A.I. ha rifiutato – senza valide argomentazioni – tali istanze o ha ostacolato lo scioglimento del contratto con ridondanti richieste di documentazione, nonostante le istanze fossero supportate da attestazioni circa la ricorrenza della causa ostativa.

Conoscevo una persona – oggi ahimè scomparsa – che, nonostante fosse affetta da una rara forma di tumore e non potesse, logicamente, più frequentare il club, è stata costretta a presentare mensilmente un certificato medico attestante la condizione di salute impeditiva dello svolgimento di attività fisica. Virgin Active Italia pretendeva la dimostrazione mensile della permanenza del tumore, in alcun modo acconsentendo alla richiesta di recesso anticipato dal contratto.

Conosco di contro centinaia di persone che, anziché rispettare la posizione della struttura ed assecondarne le richieste, come il mio compianto amico, rimuovevano l’autorizzazione bancaria al prelievo del costo mensile dell’abbonamento, non contenti della reazione negativa della struttura.

Come rilevato dall’A.G.C.M., Virgin Active anche nei casi di mancato accoglimento delle richieste di cessazione del contratto motivate da sopravvenuti impedimenti oggettivi o da rinnovi automatici del contratto non preceduti da preavviso, oltre a continuare ad addebitare i costi per un servizio non voluto e non usufruito, ha inoltrato le pratiche a società di recupero crediti (segnalazioni prot. n. 82071 del 4 settembre 2024 e prot. n. 5452 del 27 gennaio 2025).

La ridondante richiesta di documentazione, fatta passare per una legittima richiesta dalla struttura, unitamente agli ostacoli posti all’esercizio del diritto di recesso, costituiscono pratiche commerciali scorrette cd. aggressive ai sensi del Codice del Consumo.

L’anzidetto Decreto definisce, all’art. 25, tali le pratiche commerciali caratterizzate dal ricorso ad indebito condizionamento, sussistente laddove il professionista ponga qualsiasi ostacolo, non contrattuale, oneroso o sproporzionato qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compreso il diritto di risolvere un contratto, nonché qualsiasi minaccia di promuovere un’azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata.

Il consumatore che si ritrovi nel bel mezzo di un procedimento di recupero crediti, derivante dalla violazione di una clausola contrattuale relativa ad un servizio non più desiderato, si trova certamente in una condizione di debolezza e di disagio, che il legislatore comunitario ha desiderato tutelare proprio con la normativa in esame che, all’articolo 26, lettera f), definisce pratica commerciale aggressiva – e come tale anch’essa sanzionabile – l’esigere il pagamento immediato o differito o la restituzione o custodia di prodotti che il professionista ha fornito ma il consumatore non ha richiesto.

Allontanandomi un attimo dall’esame delle segnalazioni ricevute dall’A.G.C.M., ricordo con chiarezza una personale esperienza, risalente all’epoca della pandemia da Sars-Covid19, durante cui il mio compianto padre inviò per mio conto – allora ero una praticante – una diffida alla Virgin Active Italia.

Richiedevamo la restituzione della quota parte relativa al mese di marzo 2020, pagata interamente nonostante la brevissima fruizione del servizio a causa del sopraggiungere del lockdown, unitamente al recesso dal contratto, motivato dal fatto che, nonostante la palestra avesse successivamente riaperto, le prestazioni non erano più quelle contrattualmente previste in quanto l'accesso non era più libero e senza limitazioni di orario, bensì subordinato a prenotazione e ora fissa, in violazione dell'opzione open.

La replica della struttura fu disarmante, mi venne impedito di recedere e mi venne, in compenso, proposta una estensione della durata dell'abbonamento in corso, consentendo di poter godere della prestazione già corrisposta e quindi di un periodo pari ai giorni di chiusura di febbraio e di marzo in coda all'abbonamento medesimo.

In altre parole, era l’inizio della fine: si palesavano, in capo ai consumatori, ripensamenti e necessità – anche connesse alla incolumità propria e dei propri familiari, proprio a causa della pandemia – che non venivano lontanamente considerate dalla Virgin Active, protagonista di una palese pratica aggressiva ai sensi della lettera a) del su citato art. 26 del Codice del Consumo, sanzionante il professionista che crei l’impressione che il consumatore non possa lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto.

La facoltà di recesso – nel nostro ordinamento disciplinata anche dagli artt. 1463 e 1464 cod. civ. – è stata negata ai consumatori in modo reiterato, così costituendo fonte di responsabilità della V.A.I., sanzionata con l’ingentissima multa di tre milioni di euro, che affolla le testate giornalistiche online e che è da molti ritenuta addirittura insufficiente a coprire le violazioni perpetrate a danno dei propri affezionati clienti.

*****

Unitamente a quanto sinora esaminato con maggiore ardore – a causa della diretta esperienza della sottoscritta – è opportuno citare altre violazioni, dall’A.G.C.M. ritenute anch’esse fonte di responsabilità: l’assoluta assenza di comunicazione sull’approssimarsi della scadenza annuale dell’abbonamento e sul termine utile per richiedere l’eventuale disdetta, circostanza che ha impedito ai clienti di effettuare una scelta alternativa al rinnovo automatico – così costretti a richiedere la disdetta del rinnovo automatico in epoca successiva, con aggravio di costi a proprio carico nonostante la volontà di recesso manifestata.

Anche questa costituisce una pratica commerciale scorretta poiché, come emerge in modo cristallino, siamo nuovamente dinanzi alla negazione di un diritto, quello di libera scelta di non usufruire più di un servizio, di non rinnovare un contratto che sembra essere più simile ad un patto con il diavolo.

Ultimo, ma non per importanza, comportamento sanzionato dall’A.G.C.M. è l’aver la Virgin Active Italia taciuto sulle modifiche dei prezzi degli abbonamenti, addebitando i superiori costi ai consumatori che avevano, originariamente, pattuito una cifra più bassa – giustificandosi con l’asserito miglioramento dei servizi.

Alla struttura è però sfuggita, anche in questa occasione, l’importanza nel nostro sistema normativo della libertà di scelta e di contrattazione: il consumatore ha il diritto di decidere se proseguire o meno alla nuove condizioni offerte dall’altro contraente, fornitore del servizio di fitness e wellness e, pertanto, non dovrebbe essere reso edotto sui cambiamenti, che essi siano relativi al prezzo o ai servizi, solo “a cose fatte”.

Le condotte sinora prospettate costituiscono pratiche commerciali scorrette, contrarie alla dligenza professionale – a causa della scarsissima trasparenza dimostrata – idonee a falsare il comportamento economico del consumatore medio, inducendolo in errore e a fargli assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso – come espressamente previsto dalle lettere d) ed e) dell’art. 21 del Codice del Consumo.

Alla luce di tutto questo risuonano ancora più forti le parole di Luca Carboni: Ci vuole un attimo di pace, sai, di pace, sai di fare quello che ci piace, sai, mi piace, sai.

L’orientamento del Giudice di Pace di Catania

A chiusura di questa analisi, mi preme evidenziare che non tutti si sono rivolti all’Autorità Garante: uno dei clienti della struttura, di professione avvocato, ha “eroicamente” citato in giudizio la Virgin Active, chiedendo di accertare e dichiarare lo scioglimento del contratto di abbonamento annuale stipulato […] per valido esercizio del diritto di ripensamento e/o accertare e dichiarare la risoluzione contrattuale con efficacia ex tunc, previa richiesta, cautelativa, di sospensione degli addebiti su C/C e giusta declaratoria di vessatori età delle clausole dallo stesso sottoscritte – oltre al rimborso delle somme relative ai mesi “pandemici” non usufruiti e di qualsivoglia somma addebitata nelle more del giudizio.

Egli ha trionfato, ottenendo il riconoscimento dei suoi diritti.

Il Giudice di Pace ha riconosciuto il diritto di ripensamento al cliente, a fronte della vessatorietà delle clausole contrattuali, con particolare riferimento alla 14, relativa proprio al recesso, poiché non doppiamente sottoscritta dall’esponente in seno al modulo contrattuale proposto così come richiesto dall’art. 1341 c.c. e poiché non risulta che le parti l’abbiano discussa ed approvata prima della stipula.

Parimenti era riconosciuto il diritto del consumatore alla risoluzione del contratto, a fronte dell’alterazione del sinallagma contrattuale nei periodi di riapertura del Club.

Il Giudice ha rilevato che il contratto sottoscritto nei fatti non ha potuto spiegare pienamente i propri effetti, per inadempimento e/o inadempimento parziale della convenuta. La pandemia SARS-CoV2 ha, infatti, provocato la chiusura forzata di molte attività […] come le palestre la cui riapertura era subordinata, in ossequio alla normativa emergenziale vigente, ad un accesso limitato con prenotazione a 90 minuti di permanenza nel Club, in luogo del libero accesso per l’Home club e le aree relax come da contratto. Tali disposizioni concretizzatesi in vere e proprie modifiche e non in “accorgimenti” – indicati nel contratto – hanno alterato il sinallagma contrattuale e quindi hanno causato un inadempimento agli accordi sottoscritti da parte della convenuta.

La domanda del cliente era accolta: la struttura era condannata alla restituzione delle somme indebitamente trattenute ed alle spese legali relative al giudizio che, laddove la normativa vigente fosse stata rispettata, non sarebbe stato necessario avviare.

Quanti consumatori rinunciano a una siffatta tutela pagando a vuoto, pur di evitare “impicci”?

Quanti pensano “stacco il RID tanto non mi faranno mai causa”?

E quanti, dopo aver preso quest’ultima avventata decisione, si ritrovano – a distanza anche di anni – impossibilitati a frequentare il club Virgin poiché morosi di centinaia o migliaia di euro?

Ancora, quanti – stregati dall’incantesimo – pur di allenarsi nel paradiso del fitness sono disposti anche a versare le anzidette somme alla struttura, trasformandole in un “buono” da sfruttare successivamente?

Scendere a patti, cercare una conciliazione, un compromesso che sia positivo per tutte le parti è il primario compito di un avvocato – che non sempre, a differenza di quanto si creda, è soggetto litigioso – ma dinanzi ad una compressione della libertà di scelta siffatta, ne vale la pena?

 

Ci vuole un fisico bestiale
Perché siam sempre ad un incrocio
O sinistra, destra, oppure dritto
Il fatto è che è sempre un rischio

                                                                                                                                      Avv. Rosanna Ciavola

 

 Provvedimento A.G.C.M. 

 


 


lunedì 23 giugno 2025

Cancellazione dall’albo per violazione degli obblighi formativi dell’avvocato - Decreto Ministero della Giustizia 47/2016: una normativa senza conseguenze?


 

Sir Francis Bacon scriveva che la conoscenza è potere.

Un concetto semplice ma illuminante, che nel corso della storia si è presentato in più forme, divenendo oggetto delle riflessioni di più studiosi, filosofi, personaggi pubblici – tutti accomunati dal desiderio di insegnarci che sapere rende grandi, sapere può cambiare il mondo.

L’arma più potente che esista – così definiva il sapere anche Nelson Mandela – è oggi oggetto di un obbligo per i professionisti intellettuali, come gli avvocati, che nella conoscenza, nell’intelligenza, nella cultura e nella capacità di giudizio fondano un mestiere utile alla collettività.

Lo sancisce a chiare lettere il Decreto del Ministero della Giustizia n. 47 del 25 febbraio 2016 che, all’articolo 2, commi 1 e 2, ha previsto in capo al Consiglio dell’Ordine oneri di verifica triennale, nei confronti degli avvocati iscritti all’albo, della sussistenza dell’esercizio della professione in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente – individuata in elementi fra cui proprio il rispetto dell’obbligo di aggiornamento professionale secondo le modalità e le condizioni stabilite dal Consiglio Nazionale Forense.

La verifica ha ad oggetto le dichiarazioni fornite dagli avvocati, ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. n. 445/2000, e potrebbe condurre, ai sensi del successivo articolo 3, alla cancellazione dall’albo quando il Consiglio dell'Ordine circondariale accerta la mancanza dell'esercizio effettivo, continuativo, abituale e prevalente della professione e l'avvocato non dimostra la sussistenza di giustificati motivi oggettivi o soggettivi.

Secondo la norma, dichiarazioni incomplete, false o addirittura assenti in merito all’assolvimento degli obblighi formativi possono portare alla perdita del diritto di permanere nell’albo degli avvocati, trovandosi la ratio della disciplina esaminata proprio nel concetto di apertura del presente elaborato: la conoscenza è potere, la conoscenza è un’arma.

Come può un professionista debitamente tutelare il proprio assistito in assenza di aggiornamento, oltre che di nuovi stimoli, di nuove idee e spunti derivanti dall’esame di fattispecie che non conosceva, in assenza di interpretazioni nuove?

Sovente capita di trovare più persone fuori che dentro le aule ove si tengono i convegni, in attesa del termine dell’incontro per poter finalmente timbrare il cartellino e fuggire – con i crediti formativi in tasca, al sicuro da qualsiasi sanzione derivante dal mancato raggiungimento della soglia minima richiesta. Eppure è dentro quei corsi, apparentemente lenti, lunghi o vertenti su argomenti già noti, che si nasconde la conoscenza: non sempre e non solo la formazione ha ad oggetto il mero esame degli ultimi aggiornamenti delle – infinite e sempre più cavillose – leggi vigenti.

Il confronto fra professionisti, la spiegazione di un caso concreto – come l’esperienza di un magistrato, messa a confronto col punto di vista di un avvocato, ad esempio – può farci accendere una lampadina in mente, svelando una sfaccettatura a cui non avevamo pensato.

E’ in questi momenti che si nasconde il potere della conoscenza – che non è e non dovrebbe essere intesa come un dovere ma come una fonte di potere, di maggiore sicurezza nell’affrontare il lavoro, con in mano maggiori strumenti per fronteggiarne ogni difficoltà e conoscerne ogni sfaccettatura.

Eppure, molto spesso la stragrande maggioranza degli avvocati tralascia questi obblighi, dimenticando il concetto che sta alla base delle norme, certa di non venire sanzionata perchè – strano ma vero – la normativa su riportata è ancora oggi priva di concreta applicazione.

L’articolo 2 del Decreto n. 47/2016, all’ultimo comma, prevedeva che con decreto del Ministero della giustizia, da adottarsi entro sei mesi dall'entrata in vigore del presente regolamento – nell’aprile del 2016 – sono stabilite le modalità con cui ciascuno degli ordini circondariali individua, con sistemi automatici, le dichiarazioni sostitutive da sottoporre annualmente a controllo a campione, a norma dell'articolo 71 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445.

Il decreto di attuazione non è mai venuto alla luce e, di conseguenza, il Consiglio dell’Ordine competente – laddove ravvisi una violazione degli obblighi formativi in capo all’avvocato iscritto – si limita sovente a decidere in autonomia, potendosi limitare ad agire solo in ambito disciplinare.

E’ quanto di recente accaduto a Novara, il cui C.O.A. ha interpellato il Consiglio Nazionale Forense che, con parere n. 15 del 19 aprile 2024, ha osservato che l’articolo 2, comma 5 del d.m. n. 47/2016 rinvia a successivo decreto del Ministro della Giustizia il compito di stabilire le modalità con cui ciascuno degli ordini circondariali individua, con sistemi automatici, le dichiarazioni sostitutive da sottoporre annualmente a controllo a campione. La mancata adozione del citato decreto ministeriale rende tuttora non applicabile la disciplina della cancellazione per mancato rispetto del requisito dell’esercizio continuativo della professione, anche ove derivante dal mancato assolvimento dell’obbligo formativo. Ne deriva che la cancellazione per mancato assolvimento dell’obbligo formativo non è ancora operativa e che residuano in capo al COA le opportune valutazioni in merito a conseguenze di altro ordine del mancato assolvimento dell’obbligo in parola, quali la segnalazione al CDD per l’eventuale apertura di un procedimento disciplinare.

Allo stato attuale, il Consiglio dell’Ordine di appartenenza dell’avvocato inadempiente può "solo" compiere valutazioni indipendenti, in assenza della automaticità della cancellazione dopo il riscontro della violazione degli obblighi formativi.

Potrebbe ben procedere alla segnalazione delle condotte scorrette dell’iscritto al Consiglio di Disciplina, in ossequio all’art. 11 della Legge Professionale Forense n. 247/2012 – che prevede in capo all’avvocato l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell'interesse dei clienti e dell'amministrazione della giustizia – e all’art. 15 del Codice Deontologico, che sancisce il medesimo l’obbligo di curare costantemente la preparazione professionale, conservando e accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori di specializzazione e a quelli di attività prevalente.

Ancora, l’articolo 25, comma 10, del Regolamento C.N.F. n. 6/2014 prevede l’applicazione di sanzioni disciplinari in caso di accertamento della violazione del dovere di formazione e aggiornamento professionale e la mancata o infedele attestazione di adempimento dell’obbligo.

In altre parole, la violazione degli obblighi di formazione può, anche senza costituire fonte di cancellazione dall’albo, condurre alle sanzioni adeguate e proporzionate alla infrazione commessa, ma ciò è ad oggi strettamente dipendente dalla diligenza dei singoli C.O.A. nell’effettuare le adeguate verifiche, nell’individuare le violazioni e nel segnalarle ai C.D.D.

L’atteggiamento accennato ut supra, del professionista che si approcci in modo svogliato ed apatico alla formazione, pur non potendo - ad oggi - condurre alla cancellazione dall’albo, può essere oggetto di esame da parte dell’organo di disciplina, che è solito fondare la scelta di una sanzione più o meno aspra proprio sull’atteggiamento dell’incolpato – come correttamente evidenziato dal C.D.D. di Genova che, nella decisione n. 20 del 12 marzo 2019, ha posto alla base dell’aggravamento della sanzione disciplinare, proprio l’atteggiamento apatico dell’incolpato verso gli obblighi di formazione continua.

In attesa del decreto di attuazione del Ministero della Giustizia, non resta che riflettere sull’importanza della formazione – allontanandoci per un attimo dal timore di una sanzione disciplinare ed apprezzandone l'importanza e le conseguenze fruttuose sulla nostra professione – e chiederci: cosa ne direbbe, secoli dopo, Sir Francis Bacon?

                                                                                                                      Avv. Rosanna Ciavola

martedì 3 giugno 2025

Prescrizione dell’azione disciplinare degli avvocati: arma a doppio taglio o norma di riequilibrio tempistico? - di Avv. Lucy Pappalardo


 

L’elemento tempo assume, nell’ambito della valutazione dei comportamenti degli avvocati che necessitino di correzione disciplinare, un ruolo fondamentale.

La prescrizione è disciplinata dall’articolo 56 della Legge Professionale Forense n. 247/2012, norma suscettibile di due letture, di due interpretazioni per certi versi contrastanti: costituisce un mezzo per evitare lungaggini processuali o un’arma a doppio taglio?

Analizziamo detta fattispecie di notevole portata, unitamente all’evidente parallelismo fra il procedimento disciplinare ed il rito penale.

 

Rilevabilità d’ufficio della prescrizione dell’azione disciplinare – sentenza 30202/23

La prescrizione dell’azione disciplinare è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento giudiziario – come di recente evidenziato dalle SS.UU. della Cassazione Civile con la recente sentenza n. 30202 del 31 ottobre 2023.

Il provvedimento verteva su un giudizio disciplinare promosso nei confronti di un Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati per una serie di condotte di rilevanza penalistica, che sfociavano in illeciti disciplinari: dall’esame dei bilanci emergeva una serie di ammanchi e spese non documentate, indicate a titolo di rimborso per incarichi istituzionali asseritamente svolti in qualità di Presidente.

Gli atti venivano trasmessi alla Procura della Repubblica competente e il PM proponeva citazione a giudizio con l’accusa di peculato continuato ed aggravato, a fronte della accertata appropriazione in tempi dilazionati di più somme di denaro, per un totale pari a 250.000 euro.

Il Consiglio di Disciplina acquisiva poi la sentenza di condanna in primo grado per il delitto di peculato – con cui veniva fissata la pena di anni due di reclusione, con confisca delle somme – unitamente alla sentenza di conferma della Corte d’Appello.

Il procedimento disciplinare, a fronte della qualità di consigliere nazionale del C.N.F. fin dalla fase iniziale del procedimento e al momento dell’approvazione dei capi di incolpazione, proseguiva innanzi all’anzidetto organo, che acquisiva la sentenza penale di condanna negando la richiesta di sospensione del procedimento disciplinare, proposta sulla base dell'autonomia tra i due giudizi.

Il C.N.F.  irrogava l’ulteriore sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per anni due, ritenendo sussistente la colpevolezza dell’avvocato per le condotte contestate.

L’articolo 22 del Codice Deontologico prevede difatti, tra le altre, quali sanzioni applicabili nel caso di violazioni dei doveri professionali degli esercenti la professione forense, proprio la sospensione, consistente “nell’esclusione temporanea, da due mesi a cinque anni, dall’esercizio della professione o dal praticantato e si applica per infrazioni consistenti in comportamenti e in responsabilità gravi o quando non sussistono le condizioni per irrogare la sola sanzione della censura”.

L’applicazione di detta sanzione era ritenuta proporzionata, a fronte della disonorevole condotta posta in essere dall’avvocato, tanto sotto un profilo giuridico quanto sotto un profilo strettamente disciplinare.

La sua applicazione contrastava però con l’aspetto tempistico: la vicenda rientrava nell’ambito di applicazione della Legge Professionale Forense n. 247/2012, essendosi i fatti verificati successivamente al 2 febbraio 2013 – secondo cui la  prescrizione, aldilà degli effetti della sospensione e dell'interruzione, non può comunque essere prolungata di per un periodo superiore ad un quarto rispetto ai sei anni indicati dal comma 1 dell’art. 56 della Legge Professionale Forense: il termine complessivo di prescrizione dell'azione disciplinare deve di conseguenza ritenersi non superiore a sette anni e mezzo.

La normativa previgente – su cui si era basato l’organo di disciplina – prevedeva invece che la prescrizione, una volta interrotta, riprendesse a decorrere nuovamente per altri cinque anni.

Avverso il provvedimento del C.N.F. l’avvocato presentava, sulla base dell’anzidetta ricostruzione, ricorso in Cassazione, denunziando la violazione e falsa applicazione delle norme in tema di prescrizione dell'azione disciplinare.

Gli ermellini accoglievano il ricorso ritenendo ammissibile l'eccezione di prescrizione dell'azione disciplinare, essendo quest’ultima rilevabile anche d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio: aderivano con la tesi dell’avvocato, essendo il regime di prescrizione applicabile proprio quello introdotto dall’art. 56 della Legge Professionale Forense n. 247/2012: l’illecito era stato commesso successivamente all’entrata in vigore della disposizione agevolatrice – di necessaria applicazione, in favore dell’avvocato.

Le condotte appropriative reiterate si erano protratte fino al 9 febbraio 2015.

Di conseguenza il termine di prescrizione  decorrente dal 9 febbraio 2015, si è protratto fino al 9 agosto 2022 e, tenuto conto della sospensione di un anno del giudizio disciplinare, il termine si era prescritto il 9 agosto 2023.

Sulla base di ciò, la Suprema Corte ha stabilito che l'intervenuta prescrizione dell'azione disciplinare ha determinato la cancellazione senza rinvio della sentenza impugnata e l'estinzione dell'illecito disciplinare.

Parallelismi fra procedimento disciplinare e rito penale

E’ evidente come la nuova Legge Professionale Forense segua, sotto questo profilo, criteri di natura penalistica ed in particolare con il principio del favor rei sancito all’art. 2 cod. pen., che prevede “l’applicazione della pena più favorevole al reo”.

Il sistema procedimentale marcato nella Legge n. 247/2012 ha applicato al procedimento disciplinare principi ed istituti propri del procedimento penale, come il contraddittorio pieno con la difesa, la terzietà dei giudici rispetto al componente della sezione cui viene affidata l’istruttoria e la proposta di approvazione dei capi d’ imputazione; parimenti riscontriamo parallelismi anche nelle modalità di svolgimento del procedimento e nella previsione di un termine di prescrizione dell’azione disciplinare di 6 anni dalla condotta.

Tuttavia, a differenza della prescrizione dei reati che è norma di natura sostanziale, la prescrizione del procedimento disciplinare è norma di natura processuale: in altre parole, mentre la prescrizione prevista nel codice penale è causa di estinzione del reato, la prescrizione prevista nel procedimento disciplinare, sia con la vecchia che con l’attuale disciplina, è causa di estinzione dell’azione dell’organo disciplinare ma non del fatto illecito contestato.

 La disciplina previgente era ispirata ad un criterio di natura civilistica: la prescrizione, una volta interrotta, riprendeva a decorrere nuovamente per altri cinque anni.

La riforma ha invece profondamente innovato la disciplina stabilendo un termine (sei anni dalla condotta) che può essere interrotto solo in tre casi tassativamente previsti dalla norma: con la comunicazione all'iscritto della notizia dell'illecito, con la notifica della decisione del consiglio distrettuale di disciplina e della sentenza pronunciata dal CNF su ricorso.

La norma prevede altresì che dopo ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni ma se gli atti interruttivi sono più di uno in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 (sei anni) può essere prolungato di oltre un quarto.

Di conseguenza un procedimento disciplinare contro l’iscritto non può avere una durata maggiore 7 anni e 6 mesi dalla condotta illecita – proprio come emerso dall’esame della fattispecie del Presidente del C.O.A. deciso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, col provvedimento esaminato ut supra.

Riflessioni conclusive

Ciò detto ci si interroga sulla correttezza o meno di tale normativa dal punto di vista prettamente etico: è corretto che un professionista come l’avvocato, che si macchi di una condotta illecita indossando la toga, usufruisca di una agevolazione come quella sinora esaminata?

La ratio della prescrizione è quella di limitare l’eccessiva durata dei processi civili, penali ed amministrativi – garantendo altresì il diritto dei cittadini ad un risarcimento tutte le volte in cui non vengano rispettati quei principi volti ad evitare gli infiniti tempi di definizione di una controversia in sede giurisdizionale, che costituiscono da sempre una battaglia di civiltà dell’avvocatura tutta.

La previsione di un termine di prescrizione pertanto, ha l’obiettivo di garantire che il potere giudiziario venga limitato nel tempo anche per far sì che la sanzione applicata appaia contestualizzata al comportamento assunto, che sia attualizzata e non diventi obsoleta rispetto al contesto in cui viene applicata.

La prescrizione nasce per rappresentare proprio l’applicazione della giustizia, una giustizia che sanzioni sì i comportamenti scorretti e sconvenienti, ma in tempi ragionevolmente accettabili tali da garantire certezza e dignità al diritto ed a tutti i destinatari delle leggi – che essi siano privati o rappresentanti del diritto come gli avvocati.

                                                                                  Avv. Lucy Pappalardo