giovedì 16 maggio 2024

DEONTOLOGIA DEL MEDICO - RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE - CONSULTO CON LO SPECIALISTA OBBLIGATORIO O FACOLTATIVO? di Avv. Lucy Pappalardo

 


Può un medico esercitare la propria professione senza avvalersi della collaborazione di un collega specializzato, nel caso di esecuzione della perizia affidata dal PM?

Può affidarsi esclusivamente alle sue competenze ed esperienze acquisite nel corso degli anni, affidandosi solo al proprio parere?

Dal punto di vista disciplinare vi è una norma generale di fondamentale importanza, che esclude la possibilità del medico di affidarsi alle proprie capacità quando si tratta di riferimenti patologici che richiedono conoscenze di tipo specialistico.

Si tratta dell’art. 62 del codice deontologico che così recita:

Medico curante e ospedaliero

Tra medico curante e medici operanti nelle strutture pubbliche e private, anche per assicurare la corretta informazione all’ammalato, deve sussistere, nel rispetto dell’autonomia e del diritto alla riservatezza, un rapporto di consultazione, di collaborazione e di informazione reciproca al fine di garantire coerenza e continuità diagnostico-terapeutica.”

L’articolo richiama i principi generali di rispetto reciproco fra colleghi e, soprattutto, di pari considerazione della rispettiva attività professionale, al di fuori di qualunque diversa valutazione derivante dal possesso di titoli accademici o di specializzazione.

Ciò che prevale, al di là delle esperienze, della formazione, della professionalità e delle competenze, è proprio il diritto alla salute di ogni singolo paziente, che ha la necessità di prevalere su ogni contrasto relativo alle responsabilità disciplinari o giudiziali derivanti da errore medico.

La Suprema Corte si è trovata a decidere su un caso in cui era stata irrogata sanzione dall’organo di disciplina dei Medici Chirurghi e Odontoiatri nei confronti di tre sanitari, per non essersi confrontati con un collega cardiologo, mediante apposita consulenza, durante l’esecuzione di una perizia loro affidata dal P.M. presso il Tribunale di Roma, dal cui esito scaturiva un procedimento penale a carico dello stesso cardiologo.

Invero, secondo la perizia redatta dai medici, nella condotta del cardiologo erano identificabili imprudenza e imperizia, per avere refertato come normale l’ECG di una paziente, che invece presentava alterazioni patologiche che avrebbero richiesto invece approfondimenti diagnostici per valutare i rischi cardiologici e anestesiologici. La paziente dunque veniva sottoposta – senza riesame specialistico – a colangiopancreatografia retrogada, ma subiva un arresto cardiaco e, in conseguenza di questo, riportava lesioni gravi (danno anossico cerebrale).

Conclusosi il procedimento penale con assoluzione, il cardiologo decideva di segnalare al competente Ordine professionale la condotta dei periti i quali, pur non essendo specializzati in cardiologia, non si erano avvalsi del consulto di uno specialista della materia, ritenendo quindi erronea la valutazione dell’ECG fatta dall’imputato, causandone il rinvio a giudizio.

La Commissione Medica Provinciale considerava i periti responsabili della erronea valutazione della condotta dell’imputato in assenza di specifiche competenze in materia cardiologica, con particolare riferimento alla violazione dell’art. 62 codice deontologico, secondo il quale in casi di particolare complessità clinica (…) è doveroso che il medico legale richieda l’associazione di un collega di comprovata esperienza e competenza nella disciplina coinvolta, ed irrogava la sanzione della censura.

A seguito di impugnazione, la Commissione centrale confermava il giudizio di responsabilità per la violazione dell’art. 62 codice deontologico, ma ne riduceva la sanzione.

I medici ricorrevano innanzi alla S.C. sulla base di due motivi che venivano però rigettati.

Con il primo si denunciava la violazione o falsa applicazione degli artt. 358 e 359 cod. proc. pen., e si contestava l’errore della Commissione centrale di ritenere che il perito nominato dal P.M., poiché consulente di parte, non fosse obbligato a rendere un parere pro veritate.

Detto motivo veniva dichiarato inammissibile ma, in realtà, il consulente tecnico nominato da P.M. concorre oggettivamente all’esercizio imparziale della funzione giudiziaria che lo stesso P.M. è chiamato a svolgere; pertanto, essendo la sua funzione determinante e collegata a quella del P.M., il parere di uno specialista risultava indispensabile.

Con il secondo motivo si denunciava violazione o falsa applicazione dell’art. 62 codice deontologico, assumendo che erroneamente la Commissione Centrale aveva applicato la norma citata nel testo attuale, entrato in vigore il 18 maggio 2014, quindi in epoca successiva ai fatti.

L’art. 62 codice deontologico, approvato il 16 dicembre 2006, applicabile alla fattispecie in esame, subordinava l’accettazione dell’incarico peritale alla sussistenza di un’adeguata competenza medico-legale e scientifica, e i ricorrenti erano sicuramente in possesso di tale competenza.

Ancora, nel motivo si evidenziava che la lettura e l’interpretazione dell’ECG non è prerogativa di uno specialista della cardiologia, e che l’inversione dell’onda T – rilevata nel caso di specie dall’ECG – “esprime tanto condizioni fisiologiche quanto condizioni patologiche”, con l’ovvia conseguenza che il medico chirurgo deve “coniugare il dato cartaceo elettrocardiografico (con) un’accurata anamnesi ed esame obiettivo per verificare il corretto significato clinico”.

Il motivo è stato dichiarato infondato.

La Cassazione – pur riconoscendo l’errore commesso nella motivazione – non lo ha ritenuto decisivo, poiché la norma prevedeva che in casi di particolare complessità clinica ed in ambito di responsabilità professionale, è doveroso che il medico legale richieda l’associazione con un collega di comprovata esperienza e competenza nella disciplina coinvolta.

In relazione ai giudizi di responsabilità professionale, la norma imponeva ed impone tutt’oggi al medico legale di associarsi ad un collega di comprovata esperienza e competenza nella disciplina coinvolta.

Si rientra nell’ambito dei giudizi di responsabilità professionale, per i quali è richiesta la massima prudenza e cautela nello svolgimento della perizia o consulenza tecnica.

Pertanto il giudizio della Commissione non è censurabile.

La norma deontologica impone ai periti, nell’ambito dell’interpretazione di un tracciato di ECG, di interpellare un collega specializzato in cardiologia e non assume alcun rilievo l’argomento secondo cui i periti siano – a prescindere dalla specializzazione ma in semplice qualità di medici – in grado di leggere correttamente un ECG.

La previsione ad essi richiesta era destinata ad incidere nel contesto della responsabilità professionale, e ciò rendeva doveroso l’intervento di un medico di comprovata esperienza e competenza nella disciplina coinvolta.

Per tutti tali motivi il ricorso è stato rigettato senza spese, in assenza di attività difensiva degli intimati.

Concludiamo con una riflessione: il paziente pertanto ha il sacrosanto diritto di esser tutelato mediante consulto di un medico specialista, nonostante le capacità ed esperienze del medico cui lo stesso si rivolge, tanto più nei casi di particolar complessità che richiedono uno studio approfondito della questione.

Avv. Lucy Pappalardo

 

giovedì 21 marzo 2024

Mobbing e demansionamento: sottile differenza o evidente difformità? di Avv. Lucy Pappalardo


 

La continua diatriba tra datori di lavoro e lavoratori nel settore privato, da anni ha ormai innescato meccanismi che evidenziano le diverse posizioni giuridiche di entrambi i profili, senza offuscare la posizione di debolezza del lavoratore, spesso sfruttato e mal retribuito.

Accade sempre più spesso che le aziende, per motivi organizzativi o fiscali, modifichino le condizioni contrattuali dei lavoratori o in maniera esplicita o, come spesso accade, in maniera implicita ed unilaterale, senza tener conto delle necessità o esigenze di questi, nè tanto meno della loro professionalità, anzianità di sevizio o capacità professionali.

Ma in cosa consiste l’effettivo demansionamento?

Si tratta dell'assegnare al lavoratore mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza, o anche nel non assegnare alcuna mansione.

Il demansionamento è uno dei malesseri lavorativi più grevi da affrontare.

La Corte di Cassazione ha statuito che tale meccanismo pone il lavoratore in una condizione di forte stress emotivo, e che questo arreca danni sia morali che professionali. La giurisprudenza, nel tentativo di ovviare al problema, conferisce precisi vincoli al datore di lavoro e fissa uno specifico risarcimento nei casi di demansionamento.

Quest’ultimo istituto è regolato dall’art. 2103 cod. civ. il quale, nel corso del tempo, ha subito varie modifiche. Inizialmente, tale articolo sanciva che il lavoratore doveva essere impiegato per le mansioni per cui era stato stato assunto – o a quelle correlate alla categoria superiore acquisita o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna riduzione della retribuzione.

Era nondimeno prevista la nullità di ogni patto contrario.

Lo stesso articolo però ha subito sostanziali mutamenti, prevedendo oggi la possibilità per il datore di lavoro di assegnare ai dipendenti mansioni di grado inferiore riducendone la retribuzione “purchè rientranti nella medesima categoria legale”.

Varie però sono le condizioni richieste per l’assegnazione di un livello inferiore:

- che vi sia una effettiva modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore

- che il passaggio ad altra mansione avvenga all’interno della stessa categoria legale di appartenenza del lavoratore

-  che avvenga mediante forma scritta

-  che il lavoratore mantenga lo stesso livello di inquadramento nonché di trattamento retributivo in godimento 

Ciò detto, è evidente che, nonostante le modifiche relative alla norma del codice, il demansionamento nei confronti del lavoratore non è ben visto dal nostro ordinamento.

E’ manifesta dunque la volontà del legislatore di tutelare il lavoratore, che si esplicita nell’attribuzione a quest’ultimo di uno strumento fondamentale per tale tutela: il risarcimento del danno biologico o esistenziale – a condizione però che ne venga provata l’esistenza.

A partire dal nuovo millennio, gli ermellini hanno gradualmente riconosciuto al lavoratore il diritto al risarcimento del danno biologico per lesione dell’integrità psicofisica dovuta a una dequalificazione, pur in assenza di mobbing – che un tempo costituiva presupposto essenziale ai fini del riconoscimento di detta lesione.

Nel 2015, con la sentenza n. 22635 del 5 novembre 2015, la Cassazione ha deciso sul caso di un lavoratore che, dopo essere stato tenuto inattivo per un lungo periodo di tempo, decideva di citare in giudizio la società datrice di lavoro. Nello specifico, emergeva dagli incarichi assegnatigli, messi a paragone con quelli di pertinenza dei suoi colleghi di pari inquadramento, che “nessuno degli incarichi conferiti al medesimo era stato effettivamente portato a compimento, ovvero contabilizzato”, e che “la totalità dei medesimi era stata oggetto di un provvedimento di riassegnazione in favore di altri colleghi.”

Il giudice di prime cure riteneva la richiesta del lavoratore infondata in fatto ed in diritto, mentre la Corte d’Appello accoglieva l’appello e, per l’effetto, condannava la società al risarcimento del danno biologico e da perdita di professionalità subita, escludendo che si trattasse di mobbing – ma ritenendo ugualmente sussistente il nesso causale tra mancata assegnazione di mansioni al lavoratore e lesione della sua integrità psico-fisica accertata mediante intervento del C.T.U.

A seguito del ricorso ex art. 360 cod. proc. civ. da parte della società datrice di lavoro, la Cassazione confermava la decisione di secondo grado evidenziando che “il mobbing è una figura complessa che designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo” – richiamando e facendo proprio il principio della Corte Cost., sentenza n. 359/2003. 

Quest’ultima ha evidenziato la possibile sussistenza della lesione dell’integrità psicofisica pur mancando, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo alcuni elementi quali:

a) i comportamenti di carattere persecutorio, con intento vessatorio, posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo, da parte del datore di lavoro o di un suo preposto;

b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica;

d) l’intento persecutorio nei confronti del lavoratore.

Con la pronunzia del 2015, la Cassazione ha ritenuto, pur considerandosi esclusa la sussistenza dell’intento vessatorio e persecutorio, giuridicamente computabile, nell’ambito dei medesimi fatti, la condotta di “radicale e sostanziale esautoramento” del lavoratore dalle sue mansioni, che costituisce fonte di danno alla sfera patrimoniale e/o non patrimoniale del lavoratore ove ricollegabile eziologicamente all’inadempimento del datore di lavoro. Quest’ultimo veniva così condannato al pagamento di una somma pari al risarcimento del danno causato al lavoratore, in presenza di una condotta di demansionamento.

A partire da detta pronunzia si è gradualmente consolidato l’orientamento per cui a nulla rileva che la condotta del datore di lavoro non costituisca mobbing, poiché la stessa, in presenza di demansionamento, è suscettibile di provocare nella sfera professionale e patrimoniale del lavoratore un danno riconosciuto come risarcibile e degno di indennizzo.

Con la recentissima ordinanza n. 1179 dell’11 gennaio 2024, la S.C. ha evidenziato che è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti – così consolidando il principio di diritto sancito dalla Corte Costituzionale, ormai vent’anni fa.

Avv. Lucy Pappalardo

giovedì 8 febbraio 2024

Discriminazione di genere: il caso di una Compagnia aerea - Avv. Lucy Pappalardo

 

Sentenza Tribunale di Roma 

Spesso – erroneamente – si crede che, essendo ormai nel terzo millennio, certi argomenti siano obsoleti e superati.

Eppure ci ritroviamo ancora alle prese con discriminazioni piuttosto scomode e poco gradevoli.

Ci riferiamo alla sentenza del Tribunale di Roma, IV Sez. Lavoro, del 23 marzo 2022, nel procedimento n. 35684/2021 R.G., che alleghiamo.

Nello specifico il giudice ha accolto un ricorso proposto contro Italia Trasporto Aereo s.p.a., ex art. 38, D.Lgs. 198/2006, da due assistenti di volo, che avevano qualificato come “discriminazione per motivi di genere” la condotta della compagnia che, nell'ambito di un processo di recruiting, non avrebbe preso in considerazione la loro candidatura, semplicemente perché in stato di gravidanza.

La società patriarcale in cui ci troviamo, purtroppo ancora oggi, valuta in termini di disvalore l’apporto lavorativo della donna rispetto a quello dell’uomo – quasi come se appartenere a quello che allora, ed in parte ancora oggi, era considerato il cd. “sesso debole” attribuisse all’individuo una sorta di svantaggio in termini di valutazione delle prestazioni lavorative, una ridotta capacità lavorativa, un ostacolo, oserei dire in maniera azzardata, quasi un handicap dal punto di vista lavorativo (e non solo).

Come se ciò non bastasse, siamo di fronte ad una violazione di norma costituzionale e precisamente dell’art. 37, commi 1 e 2, Cost., il quale sancisce:  "La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Nel caso in esame, le assistenti di volo venivano escluse dall’eventuale selezione, semplicemente perché portavano in grembo un bambino.

Nessuna valutazione circa le capacità, le conoscenze, le pregresse esperienze lavorative delle due candidate.

Unico criterio di valutazione lo stato di gravidanza.

Ma davvero un’azienda può arrogarsi il  diritto di escludere delle candidate solo perché portano in grembo un bimbo? O di selezionare il personale sulla base delle scelte di vita? Sul serio diventare madri comporta un pregiudizio che limita un diritto fondamentale garantito della stessa Costituzione?

Quest’ultima, come riportato, riconosce a tutti i cittadini il diritto di eguaglianza, a prescindere dal sesso maschile o femminile.

Il comportamento della compagnia ha generato però una condizione piuttosto gravosa nei confronti della donna: questa dovrebbe così limitare la sua libertà di scelta di progetti familiari, dal momento che vengono prese in considerazione solo donne che non abbiano o non tentino di avere prole?

Ci troviamo davanti ad una situazione davvero paradossale: da un lato infatti la società e lo Stato incentivano le famiglie, anche mediante l’applicazione di bonus e agevolazioni fiscali in merito alla procreazione, che negli ultimi anni ha provocato una diminuzione, con conseguente drastico calo demografico – proprio a causa degli enormi costi sui consumi delle famiglie italiane, costrette ahimè a farsi i conti in tasca, perché spesso incapaci di arrivare a fine mese con una certa stabilità e serenità economica; dall’altro lato, invece, le aziende scoraggiano le donne, escludendo di default quelle che portano in grembo un bimbo o che hanno in programma di farne qualcuno.

Situazione veramente difficile da gestire, tanto più se ci si trova in un’era economica, come la nostra, nella quale la necessità di lavorare grava in capo ad entrambi i componenti del nucleo familiare, sia in termini economici che in termini di benessere e salute psico-fisica.

Inoltre è ben risaputo che la realizzazione professionale garantisce una maggior serenità e forza di spirito e tende a far in modo che l’individuo aspiri ad una maggior crescita personale e professionale – diritto che, in teoria, è garantito a tutti gli individui, ma che, in pratica, trova dei limiti non indifferenti persino nella società attuale che solo in apparenza si basa sul modernismo, sull’evoluzione, sul progresso, sull’innovazione.

Ma il caso che qui esaminiamo sottolinea una vera e propria discriminazione nei confronti di due aspiranti lavoratrici alle quali è stato addirittura negato il diritto di esser realmente valutate sulla base delle loro reali capacità.

I motivi potrebbero essere svariati: possibili lunghi periodi di assenza sul posto di lavoro per l’esercizio del diritto di maternità? Diritto di retribuzione nel periodo di maternità nel quale la lavoratrice madre che accudisce la prole, non svolge la sua attività lavorativa? Posizione scomoda della donna in stato di gravidanza nei confronti dell’azienda, la quale deve ugualmente erogare la retribuzione in quanto diritto legalmente riconosciuto alla lavoratrice madre?

Il motivo non è di rilevante interesse, ciò che occorre evidenziare è l’attuazione di una decisione assolutamente discriminatoria da parte dell’azienda in questione – discriminazione vietata con particolare attenzione da parte della nostra Costituzione, la quale così recita all’art. 4: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

A tal proposito il provvedimento del Tribunale di Roma assume rilevanza poiché reso nell'ambito del rito sommario, a carattere urgente, a contrasto degli atti discriminatori per motivi di genere, di cui al Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna.

Il Tribunale, tenendo conto delle statistiche ISTAT sulle nascite e del fatto che tra le 412 donne assunte dopo il processo di reclutamento nessuna era in gravidanza, ha concluso per la sussistenza di un comportamento discriminatorio, con conseguente condanna della compagnia al risarcimento del danno da perdita di chance alle ricorrenti (quantificato nel caso in esame in 15 mensilità).

Lo strumento risarcitorio non è certo sufficiente ad eliminare la dilagante discriminazione presente all’interno della nostra società, ma oltre a costituire un elemento deterrente – scoraggiante gli eventuali datori di lavoro ad applicare discriminazioni – restituisce anche dignità alle donne lavoratrici, quotidianamente costrette  a combattere con le visioni limitanti di una società patriarcale che vede nell’uomo l’unica fonte effettiva e concreta di lavoro, che tiene alta la distanza tra uomo e donna e che attribuisce a quest’ultima una falsa visione in termini negativi dell’appartenenza a tale categoria, come se fosse un soggetto capace di svolgere mansioni e funzioni limitate rispetto a quelle dell’uomo.

La società patriarcale è stata in grado di esercitare una netta distinzione tra “lavori maschili” e “lavori femminili”, senza tener in considerazione che in realtà apparteniamo tutti ad una stessa categoria di esseri umani e godiamo tutti in maniera indistinta degli stessi diritti e doveri.

                                               Avv. Lucy Pappalardo

 

 

venerdì 13 ottobre 2023

Procura alle liti ed informativa sulla mediazione: l’una non ingloba l’altra? Cassazine 7.12.2022 n° 35971: un pericoloso precedente giurisprudenziale - di Avv.ti Antonino e Rosanna Ciavola

La recentissima pronunzia della Cassazione (ord. 7 dicembre 2022, n° 35971) in merito al diritto del procuratore alla percezione del compenso, pur non avendo adempiuto a quanto previsto dall’art.4 della Legge n° 28/2010, sembrerebbe sancire una nuova e pericolosa interpretazione in merito alla validità della procura alle liti che, sinora gli avvocati di tutt’Italia hanno sottoposto e fatto sottoscrivere ai propri clienti.

I giudici di legittimità non ritengono difatti adempiuto l’obbligo di cui al citato art. 4, laddove l’informativa sull’esperimento facoltativo del procedimento di mediazione sia contenuta nella procura “ad litem”, dalla quale – l’informativa stessa – si distingue per oggetto e funzione. Così richiamando la sentenza del 7 luglio 2016, n° 13886, la Cassazione parrebbe distinguere in due differenti – a quanto pare necessari – documenti l’informativa dal mandato alle liti, non sembrando suscettibili di essere contenuti in un unico documento e cioè nella procura ad litem comunemente redatta dall’avvocato.

La realtà è però molto diversa: la sentenza del 2016 richiamata aveva significato opposto. La vicenda riguardava il caso di un avvocato che, dopo aver raccolto una sottoscrizione (illeggibile) del rappresentante legale di una società, omettendo di indicarne il nominativo, pretendeva di poter sussumere l’identità del proprio assistito da un altro documento e cioè dall’informativa sulla mediazione contenuta in documento diverso dalla procura, sottoscritta in modo leggibile dal cliente, debitamente identificato.

Il giudice, in detto caso, aveva sì affermato che l’informativa e la procura alle liti sono due documenti differenti sia per oggetto che per funzione, restando la prima estranea allo ius postulandi, con l’unico intento, però, di porre l’accento sull’invalidità del mandato in possesso dell’avvocato – poiché monco e non integrabile tramite un altro atto con finalità diverse.

Nella vicenda recentemente esaminata dalla Suprema Corte di Cassazione alla fine del 2022, invece, si nega la validità di una informativa sulla mediazione sottoscrivendo, unitamente al conferimento del mandato difensivo, la procura ad litem.

Le fattispecie sono diametralmente opposte e, richiamando la pronunzia del 2016, gli ermellini spianano la strada ad un nuovo pericoloso precedente per cui ogni mandato alle liti, in un certo senso “onnicomprensivo” di quanto dettato dalla Legge 28/2010 non sia, in realtà, valido come pensiamo.

Per evitare di incontrare ostacoli, suggeriamo la stesura del documento nella maniera che segue – consistente in un documento “complesso”, contenente tanto l’informativa prevista dalla L. 28/2010 quanto il conferimento del mandato alle liti.

 

FAC SIMILE

PROCURA ALLE LITI E INFORMATIVA SULLA MEDIAZIONE

Io sottoscritto _____, natc a ____, il __.__.____, cod. fisc. ________________, residente in _______, Via _______ n° __, delego l’Avv. _______________, cod. fisc. ________________, pec ______________________________, a rappresentarmi e difendermi  in ogni fase e grado del presente procedimento innanzi al __________, anche nella fase dell’esecuzione, conferendogli ogni più ampia facoltà di legge, ivi comprese le facoltà di transigere, conciliare, incassare, quietanzare, rinunciare agli atti ed accettarne la rinuncia, farsi sostituire, eleggere domicili, rinunziare alla comparizione delle parti, riassumere la causa, proseguirla, chiamare terzi in causa, deferire giuramento, proporre domande riconvenzionali ed azioni cautelari di qualsiasi genere e natura in corso di causa, chiedere ed accettare rendiconti, ed assumendo sin d’ora per rato e valido l’operato del suddetto legale.

Eleggo domicilio presso lo studio dell’Avv. __________, sito in _____, Via ________ n° __.

Dichiaro di essere informato, ai sensi dell’art. 4, co. 3, D. Lgs. n. 28/2010, della possibilità di ricorrere al procedimento di mediazione ivi previsto e dei benefici fiscali di cui agli artt. 17 e 20 del medesimo decreto, nonché dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.

Dichiaro di essere informato, ai sensi dell’art. 2, co. 7, D. L. n. 132/2014, della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati disciplinata dagli artt. 2 e ss. del suddetto decreto legge.

Dichiaro, ai sensi e per gli effetti di cui al D. Lgs. n. 196/2003 e successive modificazioni ed integrazioni, di essere informato che i miei dati personali, anche sensibili, verranno utilizzati per le finalità inerenti al presente mandato, autorizzando sin d’ora il rispettivo trattamento.

La presente procura alle liti è da intendersi apposta in calce all’atto.

______, __.__.____.

 

___________________

Visto per autentica

 

Avv. ________________


Pubblicato su Altalex