All’Avv. Antonino Ciavola, mio padre
“Non è la carezza di chi ti assiste ad avere beneficio su di te, ma la consapevolezza che è a disposizione senza volere niente in cambio”
Policlinico di Catania – Aprile 2025.
Trattenendo le lacrime – perché piangere non sarebbe stato “da veri duri” – mio padre, citando queste bellissime parole, mi ha suggerito il titolo di un nuovo articolo, e battendosi la mano sinistra sulla fronte mi ha detto che il testo l’aveva già tutto lì.
Pochissimi giorni dopo la sua patologia continuava inesorabile le sue sorprese e così la mia vita ricominciava a suonare con parole come intubazione, estubazione, protesi, stent, procalcitonina, emodinamica, noradrenalina, saturazione.
Parlo in prima persona perchè, come mi ha assicurato uno dei suoi rianimatori, lui non aveva piena contezza di cosa stesse accadendo. Ci sono delle pratiche mediche volte ad aiutare i pazienti a non rendersi conto del pericolo che stanno attraversando.
Alcuni la chiamano sedazione.
A me piace considerarla un modo per non provare paura.
L’Avvocato Antonino Ciavola se n’è andato con immensa dignità, apprezzato da chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere la sua sottile ironia, il suo sguardo buono e la sua saggezza sconfinata.
Dedico questo articolo al personale sanitario che ha visto il peggio ed il meglio di lui, a quelle persone speciali a cui una mattina ho detto: voi per me siete gli Avengers.
Il tempo di relazione è tempo di cura: l’essenziale ruolo dell’empatia nelle professioni sanitarie
All’articolo 3 del Codice di Deontologia Medica è sancito il dovere di tutelare il sollievo dalla sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona.
La versione antecedente
del Codice prevedeva, al posto della parola “dovere” il meno incisivo termine
“compito” – sostituito al fine di mettere in evidenza il rapporto
imprescindibile che deve esistere fra il medico ed il paziente, la cui tutela
non deve fermarsi alla salute meramente fisica ma anche psichica.
Il successivo art. 5 puntualizza che il
medico, nell’esercizio della professione deve attenersi alle conoscenze
scientifiche e ispirarsi ai valori etici fondamentali, assumendo come principio
il rispetto non solo della vita e della salute fisica e psichica, ma anche
e soprattutto della libertà e della
dignità della persona essendogli vietato di soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura.
L’attività medica non è, in altre parole, limitata ad una prestazione meramente tecnica, ma è da intendersi come un intervento complesso ispirato costantemente a valori etici fondamentali.
Potrei riportare ancora altre mille parole tratte dalla normativa in esame e dai suoi commentari, ma niente sarebbe in grado di descrivere adeguatamente quello che ho visto in novanta giorni.
Conoscevo questo mondo esclusivamente dentro gli scritti difensivi, nelle perizie medico legali, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, nelle Tabelle di Milano.
Milioni di cittadini ricorrono all’Autorità Giudiziaria per rivendicare la vita di un caro perduto o irrimediabilmente compromesso e, nei casi più spiacevoli, ammettiamolo, anche per guadagnar qualcosa da un errore tecnico del medico. E allora al via la medicina difensiva, la menzione delle linee guida ministeriali, il più probabile che non da parte dei professionisti sanitari, denunziati incessantemente ed attaccati al punto da essere sovente costretti a versare ingentissime somme alle compagnie di assicurazione professionale.
Eppure c’è qualcosa che nel mondo forense abbiamo sempre valutato troppo poco: l’empatia.
E’ definita come la capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro.
L’empatia andrebbe valutata ai test di ammissione alla facoltà di medicina perchè la mancanza di comprensione e di spiegazioni, configura una negligenza medica – a parere di chi scrive ben più grave di un errore di natura tecnica, derivante da imperizia, negligenza, mera disattenzione e chi più ne ha più ne metta: noi avvocati siamo abituati a porre a fondamento dei nostri scritti considerazioni di questa natura. Quando i nostri clienti hanno perduto un caro, non chiediamo mai come sono stati trattati dal personale medico, ci limitiamo spesso ad esaminare la documentazione e le relazioni peritali di parte.
Eppure, come correttamente evidenziato da Maurizio Benato – Componente del Comitato Nazionale di Boetica (CNB) e del Centro Studi FNOMCeO – per fare il medico occorre empatia, certo se uno ce l’ha innata è fortunato, ma visto che l’arte è lunga, si può imparare. L’empatia è comprensione e condivisione di intuizioni, emozioni, concetti e giudizi, l’empatia si acquisisce attraverso la relazione, l’empatia si trasmette, si impara, si condivide e si rinnova continuamente.
E’ una capacità che il Codice Deontologico Medico non sancisce a chiare lettere ma che, insieme a quella comunicativa, costituisce una solida base per arginare i conflitti ed evitare l’insorgere di controversie di natura medico legale: l’obiettivo del personale medico non andrebbe, a parere di chi scrive, circoscritto ad una preparazione eccelsa, ad un assente o basso numero di interventi con esito negativo, ma dovrebbe estendersi anche alla capacità di costituire una alleanza medico-paziente che si fondi proprio sul rispetto reciproco, sul coinvolgimento del malato nelle cure, sul conforto e sull’assistenza anche di natura emotiva – tutti elementi che aiuterebbero i comuni cittadini a smettere di vedere nei camici bianchi figure nemiche ma, al contrario, esperti di un settore che non è infallibile.
Coglie nel segno, sotto questo profilo, la formulazione del Codice Deontologico delle Professioni Infermieristiche dove si leggono, a più riprese, proprio gli essenziali principi summenzionati.
All’articolo 3 è sancito il generico obbligo di rispetto e non discriminazione nell’esercizio della professione, seguito da norme più dettagliate e concentrate sugli essenziali aspetti etici.
All’articolo 4 è previsto che nell’agire professionale, l’infermiere stabilisce una relazione di cura, utilizzando anche l’ascolto e il dialogo. Si fa garante che la persona assistita non sia mai lasciata in abbandono coinvolgendo, con il consenso dell’interessato, le sue figure di riferimento, nonchè le altre figure professionali e istituzionali.
La norma si conclude con questo essenziale concetto: il tempo di relazione è tempo di cura.
Personale medico che si premuri di informare debitamente il paziente sul suo stato di salute, che lo renda partecipe del proprio operato e che si impegni a conoscerlo ed assisterlo sotto l’aspetto emotivo, sarà positivamente considerato indipendentemente dall’esito delle cure e dalla risposta del fisico del paziente, e, difficilmente, sarà destinatario di azioni di natura legale, proprio in forza della summenzionata alleanza che, in situazioni siffatte, può o meglio dovrebbe nascere fra il personale medico ed il cittadino destinatario di cure.
Detti concetti sono ben racchiusi nell’articolo 17, secondo cui nel percorso di cura, l’infermiere valorizza e accoglie il contributo della persona, il suo punto di vista e le sue emozioni e facilita l’espressione della sofferenza. L’infermiere informa, coinvolge, educa e supporta l’interessato e con il suo libero consenso, le persone di riferimento, per favorire l’adesione al percorso di cura e per valutare e attivare le risorse disponibili, e nell’articolo 18, che sancisce l’obbligo dell’infermiere di rilevare e documentare il dolore dell’assistito durante il percorso di cura, adoperandosi applicando le buone pratiche per la gestione del dolore e dei sintomi a esso correlati, nel rispetto delle volontà della persona.
“E’ tutto molto poetico” – interverrebbe mio padre leggendo fin qui questo articolo – ma è noto che le stelle più luminose si vedono al buio e, come anticipato, l’empatia non è prescritta da alcuna norma.
Violazione dei doveri deontologici: uno sguardo ai provvedimenti disciplinari del C.C.E.P.S.
Se l’alleanza su descritta esistesse per davvero, i Magistrati non fronteggerebbero un ruolo carico di procedimenti aventi ad oggetto la responsabilità medica e, in particolare, alla Commissione Centrale per gli Esercenti le Professioni Sanitarie volerebbero le mosche.
Con la decisione n. 77 del 2 ottobre 2019, il C.C.E.P.S. ha ritenuto responsabile un infermiere per violazione delle norme deontologiche a tutela del decoro e della dignità della professione, per aver utilizzato espressioni verbali violente nei confronti del paziente e dei suoi familiari, ancorchè utilizzate per impedire disfunzioni indotte dai medesimi nell’erogazione delle prestazioni sanitarie.
La Commissione, con riferimento a tale ultima circostanza, ha rilevato che pur non costituendo esimente di responsabilità, se congruamente valutata insieme ad altri indici (la personalità dell’incolpato, la sua storia professionale ed i suoi precedenti specifici) concorre a definirne, nell’esercizio della discrezionalità riconosciuta all’organo di disciplina in sede di graduazione della sanzione, la proporzionalità del provvedimento disciplinare.
In altre parole, è chiaro che l’infermiere, al pari di qualsiasi esercente la professione sanitaria, sia legittimato a reagire dinanzi ad una difficile gestione del paziente – sia che essa derivi da peculiarità caratteriali che da ragioni cliniche – ma senza che ciò si concretizzi in una violazione della dignità e del rispetto del malato che, come è noto, verte in una posizione di debolezza.
Ancora, in un caso che definirei più estremo, il C.C.E.P.S. ha sanzionato un medico per il mancato rispetto della dignità del paziente e la sua irrisione, anche quando questi sia defunto, condotta considerata grave violazione dell’etica professionale e del prestigio della professione, valori in virtù dei quali il professionista è tenuto ad accompagnare con il massimo rispetto ed empatia il percorso del paziente dal momento iniziale fino alla sua conclusione, soprattutto se con esiti terminali (decisione n. 80 del 2 ottobre 2019).
Ritornando alla citazione ricordata da mio padre, non è la carezza di chi ti assiste ad avere beneficio su di te, ma la consapevolezza che è a disposizione senza volere niente in cambio.
Mettendoci per un attimo nei panni di un malato, allettato da settimane o addirittura mesi, ciò che fa la differenza è proprio la mano tesa di un infermiere che, nel cuore della notte, si renda disponibile ad ascoltare uno sfogo, a chiarire per la milionesima volta cosa sia accaduto, a sistemare un cuscino, a riattaccare il decimo saturimetro staccato in sole ventiquattro ore – lungi dallo sbuffare, lamentare l’ennesima chiamata o la ripetitività delle domande e delle richieste di conforto e assistenza.
Ancora, ciò che davvero conduce un paziente fuori dalla malattia – o meglio dalla percezione negativa della stessa – è l’attenzione del personale medico che si interessi a capire chi ci sia davvero dietro una cartella clinica apparentemente disastrosa, ma che rappresenta un diario di guerra, una guerra combattuta insieme e non per forza gli uni contro gli altri.
Gli obblighi informativi in capo al medico - Riflessioni conclusive
Come correttamente rilevato da uno dei rianimatori di mio padre, in uno dei temutissimi colloqui delle ore 13:00 di ogni giorno, sono proprio le spiegazioni dettagliate fornite dal personale medico ad evitare qualsivoglia malinteso, disguido e incomprensione con il paziente ed i suoi familiari.
Gli obblighi informativi sono, d’altronde, a differenza della empatia, scritti a chiare lettere nel Codice Deontologico Medico che, all’articolo 30, prevede il dovere in capo al medico di fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostiche-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate – precisando che ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta.
La norma pone attenzione anche alle modalità di comunicazione delle informazioni, specialmente quando queste siano riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazione e sofferenza alla persona, prevedendo che dette notizie siano comunicate con prudenza, usando terminologie non traumatizzanti e senza escludere elementi di speranza.
Leggendo queste parole, però, non posso che considerarle lettera morta dinanzi ai difficili tempi che corrono: è spesso in risalto nei notiziari italiani l’aggressione dei parenti di un paziente defunto o gravemente compromesso, che sono soliti distruggere i locali del Pronto Soccorso o, come ho ahimè potuto constatare con i miei occhi, le sale d’attesa delle terapie intensive – luoghi dove, come un saggio medico mi ha detto, molto spesso è ormai impossibile spegnere incendi accesi altrove.
Le modalità di comunicazione giocano quindi un ruolo essenziale nell’evitare illusioni in capo ai cittadini che spesso, incolpevolmente, dimenticano di trovarsi dinanzi a dei professionisti che possono anche fallire, nel combattere guerre dove in campo vi sono elementi diversi dalle capacità tecniche: la resistenza fisica del paziente, il tempo di ricovero, la gravità della patologia, il tempismo delle cure, strettamente connesso alla presenza o assenza di controlli di prevenzione da parte del malato.
L’empatia è probabilmente nascosta nell’articolo 30: chi ha redatto il Codice Deontologico Medico era sicuramente consapevole del potenziale fallimento della professione, della rabbia e del dolore di chi rimane dall’altra parte – in posizione di debolezza – e della differenza che può fare un medico dotato sì di freddezza, ma anche di compassione e delicatezza, nella guida del paziente e dei propri familiari verso l’accettazione di una prognosi infausta.
Volevo concludere questa riflessione con una citazione di James Brace, letta nel sito dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Catania: la medicina è la sola professione che lotta incessantemente per distruggere la ragione della propria esistenza.
Ma mi risuona in mente, ben più incisiva, una frase di una delle eroiche rianimatrici di “Deontologus”, mio padre, l’Avv. Antonino Ciavola, che – piena di quella empatia che sento tanto mancare in questo mondo – dopo la sua morte mi ha guidato verso la pace, ricordandomi che i medici sono sì a servizio della vita...ma non possono donarla.
Avv. Rosanna Ciavola