giovedì 21 marzo 2024

Mobbing e demansionamento: sottile differenza o evidente difformità? di Avv. Lucy Pappalardo


 

La continua diatriba tra datori di lavoro e lavoratori nel settore privato, da anni ha ormai innescato meccanismi che evidenziano le diverse posizioni giuridiche di entrambi i profili, senza offuscare la posizione di debolezza del lavoratore, spesso sfruttato e mal retribuito.

Accade sempre più spesso che le aziende, per motivi organizzativi o fiscali, modifichino le condizioni contrattuali dei lavoratori o in maniera esplicita o, come spesso accade, in maniera implicita ed unilaterale, senza tener conto delle necessità o esigenze di questi, nè tanto meno della loro professionalità, anzianità di sevizio o capacità professionali.

Ma in cosa consiste l’effettivo demansionamento?

Si tratta dell'assegnare al lavoratore mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza, o anche nel non assegnare alcuna mansione.

Il demansionamento è uno dei malesseri lavorativi più grevi da affrontare.

La Corte di Cassazione ha statuito che tale meccanismo pone il lavoratore in una condizione di forte stress emotivo, e che questo arreca danni sia morali che professionali. La giurisprudenza, nel tentativo di ovviare al problema, conferisce precisi vincoli al datore di lavoro e fissa uno specifico risarcimento nei casi di demansionamento.

Quest’ultimo istituto è regolato dall’art. 2103 cod. civ. il quale, nel corso del tempo, ha subito varie modifiche. Inizialmente, tale articolo sanciva che il lavoratore doveva essere impiegato per le mansioni per cui era stato stato assunto – o a quelle correlate alla categoria superiore acquisita o a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna riduzione della retribuzione.

Era nondimeno prevista la nullità di ogni patto contrario.

Lo stesso articolo però ha subito sostanziali mutamenti, prevedendo oggi la possibilità per il datore di lavoro di assegnare ai dipendenti mansioni di grado inferiore riducendone la retribuzione “purchè rientranti nella medesima categoria legale”.

Varie però sono le condizioni richieste per l’assegnazione di un livello inferiore:

- che vi sia una effettiva modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore

- che il passaggio ad altra mansione avvenga all’interno della stessa categoria legale di appartenenza del lavoratore

-  che avvenga mediante forma scritta

-  che il lavoratore mantenga lo stesso livello di inquadramento nonché di trattamento retributivo in godimento 

Ciò detto, è evidente che, nonostante le modifiche relative alla norma del codice, il demansionamento nei confronti del lavoratore non è ben visto dal nostro ordinamento.

E’ manifesta dunque la volontà del legislatore di tutelare il lavoratore, che si esplicita nell’attribuzione a quest’ultimo di uno strumento fondamentale per tale tutela: il risarcimento del danno biologico o esistenziale – a condizione però che ne venga provata l’esistenza.

A partire dal nuovo millennio, gli ermellini hanno gradualmente riconosciuto al lavoratore il diritto al risarcimento del danno biologico per lesione dell’integrità psicofisica dovuta a una dequalificazione, pur in assenza di mobbing – che un tempo costituiva presupposto essenziale ai fini del riconoscimento di detta lesione.

Nel 2015, con la sentenza n. 22635 del 5 novembre 2015, la Cassazione ha deciso sul caso di un lavoratore che, dopo essere stato tenuto inattivo per un lungo periodo di tempo, decideva di citare in giudizio la società datrice di lavoro. Nello specifico, emergeva dagli incarichi assegnatigli, messi a paragone con quelli di pertinenza dei suoi colleghi di pari inquadramento, che “nessuno degli incarichi conferiti al medesimo era stato effettivamente portato a compimento, ovvero contabilizzato”, e che “la totalità dei medesimi era stata oggetto di un provvedimento di riassegnazione in favore di altri colleghi.”

Il giudice di prime cure riteneva la richiesta del lavoratore infondata in fatto ed in diritto, mentre la Corte d’Appello accoglieva l’appello e, per l’effetto, condannava la società al risarcimento del danno biologico e da perdita di professionalità subita, escludendo che si trattasse di mobbing – ma ritenendo ugualmente sussistente il nesso causale tra mancata assegnazione di mansioni al lavoratore e lesione della sua integrità psico-fisica accertata mediante intervento del C.T.U.

A seguito del ricorso ex art. 360 cod. proc. civ. da parte della società datrice di lavoro, la Cassazione confermava la decisione di secondo grado evidenziando che “il mobbing è una figura complessa che designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo” – richiamando e facendo proprio il principio della Corte Cost., sentenza n. 359/2003. 

Quest’ultima ha evidenziato la possibile sussistenza della lesione dell’integrità psicofisica pur mancando, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo alcuni elementi quali:

a) i comportamenti di carattere persecutorio, con intento vessatorio, posti in essere contro la vittima in modo sistematico e prolungato nel tempo, da parte del datore di lavoro o di un suo preposto;

b) l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psicofisica;

d) l’intento persecutorio nei confronti del lavoratore.

Con la pronunzia del 2015, la Cassazione ha ritenuto, pur considerandosi esclusa la sussistenza dell’intento vessatorio e persecutorio, giuridicamente computabile, nell’ambito dei medesimi fatti, la condotta di “radicale e sostanziale esautoramento” del lavoratore dalle sue mansioni, che costituisce fonte di danno alla sfera patrimoniale e/o non patrimoniale del lavoratore ove ricollegabile eziologicamente all’inadempimento del datore di lavoro. Quest’ultimo veniva così condannato al pagamento di una somma pari al risarcimento del danno causato al lavoratore, in presenza di una condotta di demansionamento.

A partire da detta pronunzia si è gradualmente consolidato l’orientamento per cui a nulla rileva che la condotta del datore di lavoro non costituisca mobbing, poiché la stessa, in presenza di demansionamento, è suscettibile di provocare nella sfera professionale e patrimoniale del lavoratore un danno riconosciuto come risarcibile e degno di indennizzo.

Con la recentissima ordinanza n. 1179 dell’11 gennaio 2024, la S.C. ha evidenziato che è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti – così consolidando il principio di diritto sancito dalla Corte Costituzionale, ormai vent’anni fa.

Avv. Lucy Pappalardo